Luigi Cascioli

Ateismo attacca cristianesimo con una denuncia contro la Chiesa Cattolica sostenitrice di un'impostura costruita su falsi documenti, quali la Bibbia ed i Vangeli, e imposta con la violenza dell'inquisizione e il plagio ottenuto con l'esorcismo, il satanismo e altre superstizioni.

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Risposta alle obiezioni

Risposta alle obiezioni

Anche se non ci fossero state le prove precedentemente portate dimostranti che Gesù è una costruzione di falsari, sarebbe stato sufficiente considerare il silenzio riservatogli dagli autori del tempo per convincerci della sua non esistenza.

Plinio il Vecchio

Plinio il Vecchio, morto nel 79, testimone dei fatti palestinesi che seguirono la presunta crocefissione di Gesù, avendo passato in Palestina un periodo di cinque anni compreso tra il 65 e il 70, non fa la minima menzione di un qualcuno che avesse questo nome.

Famoso per la sua cavillosità nel redigere i fatti in ogni dettaglio, tanto da morire sul cratere del Vesuvio perché gli si era troppo avvicinato per rendersi personalmente conto del fenomeno eruttivo, se tace su Gesù e i cristiani non è certo per trascuratezza o indifferenza.

Del periodo passato in Palestina di tante cose di cui parla, compresa quella riguardante quella comunità essena che si era istallata nel deserto dell'Engaddi della quale fa una descrizione che corrisponde esattamente a quanto abbiamo poi appresa su di essa dai rotoli di Qumran, nulla dice ne di Gesù ne di quella nuova religione formata dai cristiani che secondo gli Atti degli Apostoli andava sempre più imponendosi per il continuo afflusso di decine e decine di migliaia di convertiti.

Seneca

Filosofo e scrittore contemporaneo ai fatti evangelici, ignora nella maniera più totale Gesù, i cristiani e le persecuzioni che secondo la Chiesa furono eseguite contro di essi da Nerone.

Nella ricerca di prove che colmassero questo vuoto estremamente significativo che veniva dal silenzio di Seneca che, quale precettore di Nerone, non poteva ignorare i cristiani se veramente fossero esistiti negli anni 50-60, San Girolamo (347-420), prendendo come spunto lo stoicismo che questo filosofo aveva praticato, nel colmo dell'arroganza arrivò ad affermare che era stato così vicino ai cristiani per la conformità che sentiva di avere con la loro teologia, da dichiararlo padre della Chiesa. E come se questo non bastasse, per dimostrare l'esistenza di questa pretesa relazione con i cristiani la Chiesa non esitò a fabbricare una corrispondenza fraterna tra lui e Paolo di Tarso, corrispondenza che si è dimostrata così assurda e banale che nessuno, compresa la Chiesa, osa più difendere come vera.

Svetonio

Segretario dell'imperatore Domiziano negli anni 90-95, cioè nel pieno delle presunte persecuzioni, anche lui, come Plinio il Vecchio e Seneca, nulla dice di Gesù e dei cristiani.

Nella "Vita dei Dodici Cesari", parlando di Claudio, Svetonio dice che 51 egli scacciò da Roma gli ebrei perché causavano continui disordini dietro l'incitamento di un certo Chrestos* che se la Chiesa non ha più insistito a far passare per Christo, pur avendoci provato, non è stato per un ritegno dovuto al buon senso, ma per ben altri motivi, quali quello storico derivante dal fatto che Gesù morto nel 33 non poteva essere il Crestos del 51, e quello concettuale che le impediva di trasferire il fondatore del cristianesimo nella persona di un rivoluzionario agitatore.

<<Gli ebrei furono scacciati da Roma nel 41 con un editto dell'Imperatore Claudio perché causavano continui disordini sotto l'incitamento di un certo Crestos (impulsore Cresto) >>. (Vita dei 12 Cesari - Biografia di Claudio).

Questa affermazione di Svetonio riguardo l'espulsione degli ebrei agitatori non è che un'ulteriore conferma della presenza a Roma di una comunità esseno-zelota (non cristiana come sostiene la Chiesa), alla quale appartenevano i coniugi Priscilla e Aquila che ospitarono Paolo manifestamente anche lui un Nazir. (At. 17-18). (Vedi La Favola di Cristo).

*Crestos, che significa "il migliore", fu il maggiore organizzatore di quei disordini che si manifestarono a Roma con particolare frequenza negli anni 39-40 sotto Caligola, disordini che Claudio si adoperò subito a stroncare con un editto che ordinava l'espulsione degli ebrei agitatori allorché nel 41 divenne Imperatore. Il fatto che Priscilla e Aquila fossero tra costoro e che essi avessero ospitato Paolo quale nazir, è un'ulteriore prova confermante che coloro che la Chiesa vuol far passare per primi cristiani non erano in realtà che degli esseno-zeloti.

Plinio il Giovane

Una delle prove che la Chiesa porta per dimostrare la storicità di Cristo la trae da una lettera che Plinio il Giovane scrisse nel 112 all’Imperatore Traiano quando era governatore della Bitinia e del Ponto:
<<È per me un dovere, o Signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi meglio, infatti, può dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei cristiani; pertanto non so che cosa e fino a che punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto della differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si debba concedere grazia in seguito al pentimento; o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, coloro che mi venivano deferiti quali cristiani, ho seguiti questa procedura: chiedevo loro se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono dinanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi, Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di rimetterli in libertà quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei e imprecarono Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, .e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero stati richiesti. Atto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario, l’interrogare due ancelle, che erano delle ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato nulla al di fuori di una superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi pare infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione, credo però che possa essere ancora fermata e riportata alla norma>>. (Epist. X, 96, 1-9).

Che nel 112 ci fossero Cristiani nella Bitinia e nel Ponto, come in tutte le altre regioni del Medio Oriente, lo si sapeva senza bisogno che ce lo dicesse Plinio il Giovane, quello che si contesta alla Chiesa è il fatto che costoro vengano dichiarati seguaci del suo Cristo vissuto e morto nell’anno 33.
Per conoscere chi erano i cristiani e il Cristo dei quali ci parla Plinio il Giovane bisogna rifarsi a quegli inizi della storia del popolo ebraico che, priva com’è di ogni documentazione, possiamo riassumerla usando come introduzione le parole con cui cominciano le favole: C’era una volta un popolo di pastori nelle zone semidesertiche della Mesopotamia che per sfuggire ad una vita misera e nomade (è dalla parola semitica “ebher” -errante- che viene il nome di Ebrei), un giorno di quaranta secoli fa decise di trasferirsi verso il sud nella speranza di trovare terre più prospere e accoglienti.
Respinto dagli Egiziani, entrò in Palestina dove, nonostante la continua opposizione che ricevette dai popoli che vi abitavano, s’istallò definitivamente svolgendo quella storia le cui vicende e tradizioni furono tramandate, attraverso racconti popolari, fino a quando non venne riportata su quel libro chiamato “Bibbia” che fu scritto dopo il VI secolo a.C.
In questa favola, dopo Abramo, che fu il primo prescelto da Dio come guida del suo popolo, di Messia ce ne furono altri, quali Giacobbe, Mosè e Saul prima di arrivare all’ultimo che, nella persona di un certo Davide, fu considerato il più grande per essere riuscito a fondare quel regno d’Israele che, comprendendo tutta la Palestina, realizzava per gli ebrei il desiderio che avevano sempre avuto di possedere una terra che gli avesse permesso di darsi una nazione come l’avevano tutti gli altri popoli.
Ma il regno, per via delle congiure e delle rivolte promosse contro Davide dai seguaci del re Saul che lui aveva detronizzato, dopo quaranta anni cadde.
Stando a quanto dice la Bibbia, unico libro che parla di lui, Davide nacque a Betlemme e morì a Gerusalemme all’età di 73 anni in una data del X secolo che, anche se non precisata, determinò nel popolo Giudaico l’inizio della grande attesa di un nuovo Messia, cioè di un secondo fondatore del regno d’Israele che, stando ad una promessa fatta da Dio, sarebbe uscito dalla sua discendenza: <<Dio disse a Samuele: vai dal mio servo Davide e digli che dopo che sarà morto io assicurerò la discendenza delle sue viscere e renderò stabile per sempre il trono del suo regno>>. (II Sam.7,12 e segg.).
Forti di questa promessa che gli veniva da Dio, i Giudei, facendosi rivendicatori della Palestina, combatterono nei secoli che seguirono contro quelli che l’occupavano nella continua attesa del Messia restauratore del Regno d’Israele che sarebbe uscito dalla stirpe di Davide.

L’Assiria occupa il centro nord della Palestina.

Le lotte tra i popoli autoctoni che vivevano di agricoltura e i pastori nomadi che li depredavano dei loro prodotti, che allegoricamente vengono espresse dal conflitto tra Caino e Abele, cominciate da quando gli ebrei furono cacciati dall’Egitto, proseguirono su tutta la Palestina fino a quando l’Assiria non vi pose termine, almeno su una parte di essa, occupando le regioni del centro nord rappresentate dalla Gallia e dalla Samaria. Ed è a partire da questa occupazione, avvenuta nel 720, che la storia ebraica comincia ad acquistare, ma sempre in un contesto estremamente generalizzato, qualche valore storico.
Con l’ordine sociale che si stabilì in queste regioni in seguito all’imposizione delle leggi Assire, venne a crearsi tra i nomadi invasori e le popolazioni indigene un clima di pacifismo tale e di concordia da portarli a unirsi in matrimoni.
Come conseguenza di questa socializzazione, gli ebrei, oltre che ad apprendere dalle popolazioni autoctone i vantaggi propri di una cultura a stabile dimora, vennero a conoscenza anche di quei principi religiosi mediorientali che, importati dall’Assiria, consideravano nei loro Culti dei Misteri l’esistenza di una vita eterna dopo la morte.
Attratti da questi concetti che sostenevano una vita soprannaturale, una parte degli Ebrei samaritani lasciò gl’idoli profani atavici per costruirsi anch’essi, su imitazione delle divinità venerate nelle grandi religioni del Medio Oriente, quali Iside in Egitto, Marduk in Persia, Mitra in Iran e Astarte nella stessa Assiria, un Dio trascendentale il cui nome di Elhoim lo trassero da quel dio El che nelle primitive credenze semitiche rappresentava le forze misteriose che seguono le tribù nelle loro marce attraverso il deserto.
Con questo Dio dalla figura invisibile, riesumato dal passato, i Samaritani fondatori di questa nuova religione entrarono nel sincretismo pagano rispettando nella forma più tollerante e pacifica gli altrui culti tanto da accogliere nel tempio che si costruirono sul monte Garazim, a mò di Pantheon, tutte quelle divinità pagane che gli altri ebrei continuavano a seguire nel loro politeismo atavico, quali il vitello d’oro, il serpente di bronzo, Baal, Succot-Benot, di origine babilonese, Necustan adorato dagli ebrei dal tenpo di Mosè, gli idoli di Iamnia e tutti gli altri che vengono continuamente nominati dalla stessa Bibbia. (II Re. 17,29).
Questo ambiente di serenità sociale che si era istaurato in Samaria fu fortemente osteggiato dagli altri ebrei che vivevano nel sud della Palestina, cioè in quella regione della Giudea che non era stata occupata dall’Assiria. Per costoro, che continuavano a vivere di rapine e di estorsioni, il pacifismo dei Samaritani fu preso come un segno di debolezza e di vigliaccheria tanto da chiamarli traditori per la sottomissione alle leggi Assire e bastardi per i matrimoni che contraevano con le popolazioni indigene. Accuse e offese che, ravvivando l’odio che si protraeva dai tempi di Saul e Davide, li riportarono a contendersi il primato sul popolo ebraico attraverso quella che doveva essere la capitale della Palestina, per i Giudei Gerusalemme, per i Samaritani Samaria.

Nabucodonosor e la prigionia di Babilonia.

(I predoni Giudei imparano a scrivere).
Quando nel 586, cioè circa un secolo e mezzo dopo l’occupazione dell’Assiria, Nabucodonosor s’impossessò del sud della Palestina (Giudea), gli Ebrei che si trovavano in questa regione, a differenza di quelli del centro nord che si erano assoggettati alle leggi Assire ed avevano solidarizzato con le popolazioni autoctone, reagirono all’invasore attaccandolo in un continuo di scontri e d’imboscate che portarono ad un conflitto che terminò con la sconfitta dei ribelli e la distruzione del loro covo che, come risulta dai documenti, era costituito da un agglomerato di casupole, grotte e passaggi sotterranei, costruiti nei pressi di un grande deposito di acqua, a cui era stato dato il nome di Yaerusalaim (Gerusalemme).
Nella risoluzione di porre fine a questa razza di predoni, dopo aver inviato come prigionieri a Babilonia i suoi capi che, stando alla stessa Bibbia raggiunsero un numero di quindicimila persone, Nabucodonosor continuò a perseguitare i restanti vivevano in accampamenti sparsi nella Giudea.
Sarà in seguito alla diaspora prodotta dalle persecuzioni di Nabuccodonosor che si formeranno nelle varie nazioni del Medio Oriente quelle comunità che determineranno l’evoluzione religiosa e politica del popolo ebraico che porterà al Cristo di cui ci parla Plinio il Giovane.
Liberati da Ciro il Grande in seguito all’annessione di Babilonia all’Impero Persiano (539), una buona parte dei discendenti di quei capi che erano stati fatti prigionieri da Nabuccodonosor, ritornò in Giudea con la ferma decisione di farne la propria nazione per un diritto di proprietà che gli veniva quali discendenti di coloro che, sia pur da predoni, l’avevano occupata nel passato per una donazione ricevuta dal Dio creatore e padrone del mondo.
Ripreso così il possesso di Gerusalemme, cioè di quella borgata che era stata il covo dei loro antenati, si misero a ricostruirla nonostante l’opposizione che gli veniva dai popoli autoctoni, quali i Gebusei e i Cananei, che, in qualità di leggimi proprietari di quelle terre, continuavano a considerarli degli invasori come lo erano stati nel passato i loro padri.
Fu in questo periodo che i Giudei, avvalendosi delle cognizioni politiche e religiose che avevano appreso dalla civiltà babilonese durante i cinquanta anni di prigionia, pianificarono la conquista della Palestina mettendo Gerusalemme come punto di riferimento di quel mondo ebraico che, dispersosi in seguito alle persecuzioni di Nabuccodonosor, si erano riproposti di ricompattare dandogli un Dio, una storia di popolo e un codice sociale (il Pentateuco) attraverso quel libro a cui fu dato il nome di Bibbia.

La Bibbia.

Quando fu scritta la prima Bibbia? Escludendo l’assurda data che la Chiesa fa risalire a Mosè, ogni periodo può essere ritenuto accettabile a partire dalla liberazione dei Giudei da Babilonia, tanto da portare alcuni esegeti a ritenere che la prima edizione sia uscita addirittura nel III secolo a. C.
Ma la data di redazione della Bibbia, per quanto possa essere considerata di grande interesse da coloro che nei fatti cercano più le chiacchiere che la sostanza, ha ben poca importanza per determinare l’influenza che essa ha avuto sulla società ebraica dal momento che tutto ciò che in essa fu riportato era già scritto nell’intimo di ogni ebreo, sia per ciò che riguardava l’osservanza delle leggi e delle tradizioni e sia per ciò che si riferiva alla sua storia di popolo nomade le cui leggende erano state quotidianamente ripetute nel corso dei secoli dai cantastorie al suono dei salteri. (salmo da salterio).
Credere che dopo la sua uscita tutti gli ebrei ne abbiano avuto una copia a disposizione sotto la tenda sarebbe a dir poco ridicolo. Con la difficoltà che c’era nel ricopiare i testi, anche i più brevi, e con il semi analfabetismo della stessa classe sacerdotale, che certo non ne incoraggiava le riproduzioni, c’e da supporre che in tutto possono essercene stati due o tre esemplari conservati sotto forma di rotoli presso i principali templi, quali quelli di Gerusalemme e di Garizim, esemplari che molto probabilmente, oltre che contrastanti nei contenuti, risultavano in buona parte anche incompressibili per la confusione d’idee e di concetti che dovevano regnare sovrani presso coloro a cui era affidata l’amministrazione religiosa, come ci viene confermato dalle innumerevoli contraddizioni e incoerenze che si trovano tutt’ora nella Bibbia nonostante sia stata ripetutamente riveduta e corretta nel corso dei secoli.
Ammesso che la prima copia sia stata scritta dai Giudei tra il VI e il V secolo, tolto l’ambiente giudaico e samaritano che per un contatto bocca-orecchio poteva essere venuto a conoscenza dei suoi contenuti, dovettero certamente passare molti secoli prima che la Bibbia uscisse dalla Palestina per diffondersi nelle altre nazioni se consideriamo che, scritta com’era in lingua aramaica, risultava inintelligibile a tutte le comunità ebraiche che parlavano le lingue delle popolazioni presso cui risiedevano. Una certa diffusione la ebbe soltanto nelle seconda metà del primo secolo d. C., cioè dopo la guerra giudaica, allorché gli Esseni furono costretti a tradurla in greco per via dell’influenza ellenista che aveva portato questa lingua ad essere la più parlata nel Medio Oriente: <<Fu appunto nella seconda metà del primo secolo, quando le comunità ebraiche del Medio Oriente e soprattutto in Alessandria d’Egitto erano arrivate a parlare solo in greco, che la Bibbia, detta dei 70, fu completata e tradotta in questa lingua contrariamente a quanto viene raccontato dalla Chiesa che la fa dipendere da un certo Tolomeo Filadelfo, re d’Egitto (309-246)>>. (Iosif Krievelev – Calendario del Popolo. Ed. Teti).
Per ciò che riguarda poi il mondo occidentale, la Bibbia vi rimase praticamente sconosciuta fino a quando la Chiesa non la tradusse in latino nel VI secolo per annoverarla, dopo discussioni e ripensamenti, tra i testi canonici.
Alla domanda su come gli Ebrei potessero seguire gl’insegnamenti della Bibbia pur ignorandone la sua esistenza, la risposta ci viene dal fatto che il suo contenuto lo portavano con loro come se lo avessero scolpito nell’anima, come un DNA che gli veniva dai tempi più remoti tanto da praticarlo, ovunque fossero, sia per ciò che riguardava le leggi ataviche, di cui andavano così orgogliosi da ritenerle le migliori del mondo, che le tradizioni popolari, quali le feste della Pasqua, della Pentecoste e delle Capanne; tre ricorrenze che, avendo soltanto uno scopo di ringraziamento e di propiziazione dei raccolti, potevano essere celebrate, indipendentemente dalla credenza a cui gli Ebrei appartenevano, come dai seguaci di Elohim e di Yahvet così dagli adoratori delle divinità pagane, quali Astarte, Baal, il vitello d’oro e tutti gli altri; la Pasqua, che era la festa della primavera di tipo pastorale, che caratterizzata dal sacrificio degli agnelli, la Pentecoste, che si svolgeva nell’estate come ringraziamento dei primi frutti, e la ricorrenza delle Capanne o Tabernacoli, che si veniva celebrata in autunno in piena campagna sotto capanne costruite con rami e foglie alla chiusura del ciclo agrario, come in Palestina sarebbero state rispettate da tutti gli ebrei in qualsiasi altra nazione si trovassero anche se non fosse stata scritta la Bibbia.

Rivalità tra Samaritani e Giudei.

I Giudei e i Samaritani, che già vivevano in uno stato di inimicizia dal X secolo in seguito al trasferimento del regno del Nord da Ebron a Gerusalemme, voluto da Davide l’usurpatore di Saul, rafforzati nell’odio durante l’occupazione dell’Assiria, continuarono a rivaleggiare pur seguendo le stesse leggi del Pentateuco.
Gli argomenti sui quali basavano le loro divergenze, prettamente di carattere religioso, riguardavano le interpretazioni dei fatti riportati sulla Bibbia che ciascuno girava a proprio vantaggio per dimostrare all’altro di essere lui il vero popolo prescelto da Dio per assumere il ruolo di guida del popolo ebraico.
<<I giudei e i samaritani si scomunicavano reciprocamente; ciascuna delle due fazioni considerava l’altra come un’accozzaglia di gente pestifera della quale bisognava evitare ogni contatto; i loro conflitti non si limitavano solo alla Palestina ma si estendevano su tutta la diaspora, in particolare in Egitto.
Un giudeo non doveva mangiare il pane samaritano perché, essendo lievitato, era da aborrirsi come la carne di porco e così il vino perché era fermentato.
La testimonianza di un samaritano doveva essere respinta pena l’annullamento del processo.
Per i Giudei i Samaritani erano colpevoli di aver corrotto e violato le Scritture.
Da parte loro, i Samaritani consideravano i Giudei degli eretici e degli scismatici, per essi i veri Israeliti erano quelli che dipendevano dal monte Garazim e dimostravano disprezzo per Gerusalemme.
Si accusavano reciprocamente di non osservare strettamente le feste mosaiche quali la Pentecoste, la Pasqua e i Tabernacoli.
I rabbini giudei accusavano i Samaritani di adorare sul monte Garazim una colomba e degli idoli che Giacobbe aveva sotterrato (Gen.35,4) sotto la quercia di Morech, per rendere culto alla dea Istar>>. (Dal quaderno del Circolo Renan– terzo trimestre 1956).
Dei libri che costituivano la Bibbia per i Samaritani erano canonici soltanto quelli del Pentateuco che riportavano le patrie leggi (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), gli altri, quali Samuele, I Re, Le Cronache, I Salmi ecc., che erano stati scritti dai Giudei, li consideravano abusivi e apocrifi.
Nei libri Esodo (20,17) e Deuteronomio (5,21) in uso presso i Samaritani, il decimo comandamento, che presso i Giudei proibiva di desiderare la proprietà e la donna d’altri, riportava invece l’ordine che aveva dato Dio di costruire un altare i suo onore sul monte Garazim.: <<Quando il tuo Signore ti condurrà nella terra di Cana della quale tu prenderai possesso, allora tu istallerai sul monte Garazim un altare in pietra per celebrare riti al Signore tuo Dio. Questa montagna è situata al di là del Giordano nella terra di Cana che si trova ad ovest, davanti a Gilgal e Shechem>>.
Praticamente in forza di questo comandamento che designava la Samaria come centro della terra promessa, i samaritani traevano la pretesa di essere loro il vero popolo prediletto da Dio e quindi i legittimi eredi del Regno d’Israele. Come conferma di questa pretesa, dicevano ancora che sul monte Garazim vi avevano costruito un altare per il loro Dio, Adamo, Seth e Noè, che Assalonne vi aveva sacrificato suo figlio e Giosuè vi aveva innalzato quelle dodici pietre che aveva riportato dal Giordano sulle quali vi aveva scritto le parole della legge. (Tutte fesserie che, ridicole alla ragione, per certa gente sono alla base dei loro diritti, della loro morale, delle loro esaltazioni fideiste).
La controversia tra Samaritani e Giudei non rimase sempre nei limiti di una discussione storico-religiosa ma spesso arrivò a dei veri conflitti armati come quello che avvenne nell’anno 200 a. C. sotto il pontificato di Onia II nel quale i Samaritani attaccarono i Giudei facendo numerosi prigionieri che condannarono alla schiavitù e l’altro che fu operato nel 128 dai Giudei contro i Samaritani allorché Giovanni Ircano, Figlio di Mattatia, distrusse il Tempio di Garazim.
Contrariamente a quanto si crede, erano i Samaritani e non i Giudei i più tenaci a considerarsi i legittimi rappresentanti della religione ebraica e possessori del vero Tempio.
<<Furono gli storici cristiani che, interessati a mettere in risalto la storia giudaica, trascurarono di proposito i Samaritani, il loro tempio e i loro insegnamenti. Questo comportamento, assolutamente grave, ci costringe oggi a ricerche, spesso basate su ipotesi, per poterci spiegare quei fatti che risultano ancora oscuri e incomprensibili>>. (Circolo Renan – Quaderno del III trimestre 1956).
Come conseguenza di questo odio le due fazioni si lottarono mettendo ciascuna in atto un programma di conquista secondo la propria ideologia; i Samaritani, quello basato sul pacifismo sociale e religioso che avevano assimilato dai popoli autoctoni sedentari e dal sincretismo del Culto dei Misteri, i Giudei, quello di una rivendicazione armata secondo i dettami che gli venivano da quel libro che loro stessi avevano scritto, quel libro di odio e di vendetta chiamato Bibbia che, come servì da base ai rivoluzionari Yahvisti per eseguire e giustificare le loro stragi, così verrà usato in seguito dalla Chiesa e dai maggiori delinquenti per assolversi dei propri crimini come recentemente ci è stato confermato da Provensano che di esso ne aveva fatto il proprio vademecum.
Per comprendere come nella costruzione del loro Dio i Giudei riversarono la parte peggiore che è nell’uomo, quella costituita dall’odio, dalla vendetta e dal rancore, basta ricordare l’origine dalla quale trassero il suo nome: <<Il nome di Jahveh che i Giudei dettero al loro dio lo presero, affinché potessero esprimere tutto l’odio che in essi si era accumulato contro il resto del mondo, da quella divinità infernale, sanguinaria e collerica, che risiedeva nel vulcano del Sinai, dove, tra fiamme e fuoco, Mosè aveva ricevuto le tavole della legge>>. (Eduard Mayer – Gli Israeliti e i loro vicini d’origine – Ed. Halle. Pag. 60 e segg.).

Mitra.

A differenza di tutte le altre religioni che avevano fatto discendere dal cielo le proprie divinità per dare la possibilità agli uomini di pervenire all’eternità attraverso il loro insegnamento e il loro sacrificio (vedi Marduk in Babilonia, Astarte in Assiria, Adone in Siria, Osiride in Egitto), presso la religione Mazdeista, per il concetto che aveva sulla incomunicabilità tra lo spirito e la materia, la missione salvifica non era stata realizzata direttamente dal dio Aura Mazda, ma da un suo sostituto nella persona di suo figlio Mitra.
Il motivo per cui la religione mazdeista ricorse ad un intermediario dipese dal concetto che essa aveva sull’incomunicabilità tra lo spirito e la materia, quella incomunicabilità che già aveva impedito ad Aura Mazda di realizzare personalmente la creazione.
Cosa era la creazione per la religione Mazdeista? Più o meno la stessa cosa come lo è per tutte le religioni creazioniste che, facendola partire da quel “Dio creò dal nulla tutte le cose”, presenta delle contraddizioni che praticamente ne rendono impossibile la spiegazione soltanto se accettiamo come buona l’assurda pretesa di uguagliare il nulla al caos e alle tenebre.
Tralasciando quindi ogni ovvia conclusione a cui si arriverebbe dimostrando che il caos e le tenebre rappresentano comunque un’esistenza che esclude il “nulla”(1), proseguiamo sulla spiegazione della necessità che ebbe la religione mazdeista di introdurre un intermediario che fungesse da anello d’unione tra lo spirito e la materia.
Cercherò di essere il più breve e il più rapido possibile, se ci riesco, perché quando un argomento è demenziale è difficile pure darne la spiegazione.
Come tutte le religioni creazioniste, la mazdeista introduceva in seno all’eternità un periodo compreso tra due parentesi, una che si apriva dando inizio alla creazione dell’universo e l’altra che si chiudeva con la sua fine. Ignorando ciò che c’era prima e ciò che si sarebbe stato dopo la creazione dell’universo, per queste religioni il concetto del tempo viene determinato dall’inizio e dalla fine dell’universo.
Cosa ci mettono queste religioni prima e dopo la creazione, cioè in quelle eternità, luna che l’ha preceduta e l’altra che la seguirà? Ci mettono un’entità spirituali rappresentata dal pensiero di Dio che vive in un nulla che assurdamente viene assimilato al caos e alle tenebre.
Due entità che, appartenendo a due dimensioni differenti e non contattabili tra loro, come vivevano separate prima della creazione così ritorneranno a vivere dopo la fine del mondo.
Espresso questo concetto di incomunicabilità tra lo spirito e la materia, passiamo nel caso specifico riferito alla religione Mazdeista nella quale il pensiero è rappresentata dal dio Aura Mazda e il caos e le tenebre da un Toro cosmico.
Questa situazione basata su due entità che vivevano separate da un’eternità senza tempo (!?!), si protrasse finché Aura Mazda, molto probabilmente perché annoiato di procedere in un ozio perenne, non decise di costruirsi un qualche cosa con la qual potesse passare il tempo, un qualche cosa che, nella sua essenza di pensiero quale lui era, immaginò formata da una grande calotta azzurra che a mò di tetto copriva una piattaforma sulla quale ci vide tanti fiori colorati e tante bestioline di terra, di mare e di cielo e un bipede che avrebbe dotato di un’intelligenza superiore perché, avesse potuto comprenderlo nella sua grande realizzazione per rendergli quegli omaggi ed onori che sentiva di meritare come tutti gli artisti al compimento della loro opera: <<Laudato sii mio Signore per frate foco e sorella acqua, a te gloria, onore ed ogni benedizione…>>.
Tutto era pronto nella sua mente divina, il progetto lo aveva concepito nei minimi dettagli, tanto da metterci dentro anche le formiche rosse, i pappagalli verdi, le piattole e la lebbra, ma quando fu per attuarlo un ostacolo gliene impedì la realizzazione perché lui, quale purissimo spirito, non poteva assolutamente relazionare con la materia di cui erano composti il suo bel capannone e quel caos e quelle tenebre che dovevano essere eliminati affinché si liberasse lo spazio cosmico di cui aveva bisogno per mettere in atto il suo progetto. Non a caso Dio viene chiamato “il grande architetto”.
Con questa idea che s’era messa in testa, bellissima ma irrealizzabile, il tempo prese a passare in un’attesa che molto probabilmente avrebbe sfociato in una nevrosi, se un bel giorno all’onnipotente Dio non gli fosse venuta l’idea di affidare a qualcun altro quello che non poteva fare lui.
Questo qualcuno se lo procurò generando un figlio nella persona di Mitra, un figlio uscito dal suo pensiero, al quale, dopo avergli parlato del suo capannone e ben spiegato il motivo per cui non poteva realizzarlo, disse. <<Vai, uccidi per parte mia il Toro cosmico. elimina il caos e le tenebre e metti al loro posto la mia costruzione>>, e Mitra, costituito un esercito di guerrieri, chiamati “Angeli della luce”, marciò contro il Toro cosmico ingaggiando una battaglia contro i suoi difensori, chiamati “angeli delle tenebre”, che al suo avvicinarsi, agli ordini del cattivo Arimane, si erano alzati in volo come vespe che difendono il proprio nido.
Gli angeli del male, neanche e dirlo, furono sconfitti (2), il Toro fu ucciso e nel cosmo, liberato del caos e delle tenebre, ci fu la luce che determinò quella creazione dalla quale tutte le religioni creazioniste, ignorando la preesistenza di un caos da esse stesse dichiarato già esistente, fanno dipendere l’inizio della materia come ci viene confermato dall’ultima arrivata: <<In principio creavit Deus Coelum et terram, terra autem erat inanis et vacua et tenebrae erant ubique>>.
Chiusa così la prima puntata della telenovela con sparizione delle tenebre che dà il posto ad un sole che brilla sopra una piattabanda dove, in un tripudio di gioia programmata senza fine dal suo creatore, tra tanti germogli che sbocciano e quadrupedi che si prolificano viene fuori anche un bipede dotato di tanta intelligenza da portarlo a credere a queste fesserie, passiamo alla seguente, cioè a quella che porterà sulla terra il dolore e la morte.
Gli angeli del male, sconfitti nella grande battaglia cosmica, si rifugiarono sulla terra dove, inseguiti dagli angeli della luce, ripresero a combattere, per difendere quella parte di tenebre che erano riusciti a portarsi dietro al grido di “salviamo il salvabile”.
Sarà da questa presenza degli angeli delle tenebre che la teologia Mazdeista farà dipendere l’origine del male sulla Terra, del dolore e della morte.
L’uomo, nel suo desiderio di ritrovare la felicità perduta, come voleva che la luce trionfasse nel mondo materiale, tanto da gioire quando nel solstizio d’inverno essa rimontava sulle tenebre, altrettanto lo voleva nel mondo spirituale per poter ritornare alla perfezione che aveva quando era stato creato, quella perfezione che lo avrebbe librato dalla morte. Ma come poterla riconquistare questa perfezione se la sua volontà si dimostrava più debole delle tentazioni della carne? Consapevole allora della sua debolezza chiedeva soccorso a Dio, un soccorso che Dio, pur volendolo, non poteva però dargli per l’interdizione che aveva, quale purissimo spirito, di contattarlo nella sua materia.
Fu per questo impedimento che la religione Mazdeista, a differenza di tutte le altre religioni che avevano fatto discendere dal cielo direttamente le loro divinità per insegnare agli uomini la via da seguire per raggiungere la perfezione, ricorse ancora una volta a Mitra perché svolgesse il ruolo da intermediario tra lo spirito e la materia come precedentemente aveva già fatto per realizzare la creazione dell’universo (3).


(1) Discussione che ho avuto a 13 anni con il professore di religione che mi rispose secco con uno sguardo di odio che certe cose, troppo grosse per me, le avrei capite quel giorno in cui avrei studiato la teologia, quella scienza del NULLA, aggiungo io, alla quale ci si arriva soltanto dopo essere stati rincoglioniti da precedenti lavaggi di cervello

(2). Da questa battaglia sarà tratta quella riportata sulla Bibbia tra il Drago cosmico e L’angelo Michele. (Ap.Cap.12).

(3). La situazione che vedeva l’uomo implorare l’aiuto di Dio perché lo aiutasse ad elevarsi a lui e un Dio che, pur volendolo, era impossibilitato a esaudire il suo desiderio, ci viene eccellentemente dimostrata dall’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina attraverso quelle due mani tese che non arrivano a contattarsi, quelle due mani che sarebbero rimaste separate in eterno se non fosse intervenuta una terza entità che, mettendosi tra lo spirito e la materia, le avesse unite facendo da intermediario. La figura di Mitra, quale intermediario tra Dio e gli uomini, la ritroveremo poi riportata, in perfetta ricopiatura, dopo nove secoli in Gesù Cristo.

Mitra l’intermediario.

Mitra, obbediente al Padre, discese sulla terra e svolse la missione del Soter (Salvatore) come tutte le altre divinità dei Culti dei misteri che, dopo aver insegnato la via della perfezione, morivano per trasmettere agli uomini, attraverso la loro resurrezione, la virtù di vincere sulla morte e diventare eterni.
Su Mitra fu scritto un vangelo in tre volumi, l’Avesta, esistente ancora fino al II secolo dopo Cristo. Fatto sparire, e possiamo immaginare da chi, di esso ci sono comunque pervenuti i contenuti attraverso diversi autori, quali Giustino nelle sue “Apologie” (1-66) e Tertulliano in “Della Prescrizione degli Eretici” -pag. 40.
Nell’Avesta si diceva che era nato in una grotta (1) da una vergine, che dopo aver predicato la giusta morale era stato ucciso dai suoi nemici e che il terzo giorno era resuscitato da morte, dopo essere disceso agli inferi, per risalire in cielo.
Vi si diceva ancora che nell’ultima cena, dopo aver istituito il sacramento dell’Eucaristia, aveva promesso ai suoi dodici discepoli che il giorno del giudizio universale sarebbe ritornato alla fine del mondo sopra una nuvola per giudicare i vivi e i morti.
Conosciuti così i concetti base su cui la religione mazdeista basava la creazione dell’universo e la salvezza degli uomini, possiamo riassumere la figura di Mitra con queste parole: << In principio era Mitra, Mitra era presso Dio e Mitra era Dio. Egli era sin dal principio presso Dio e tutto fu fatto per mezzo di lui. Lui era la vita, la luce dell’universo che splende sulle tenebre. Mitra si fece carne e venne ad abitare fra gli uomini. Fu ucciso e seppellito, il terzo giorno resuscitò da morte, salì in cielo dove sedette alla destra di suo padre in attesa di ridiscendere sulla terra, alla fine del mondo, per giudicare i vivi e i morti. Mitra è la via, la verità, la vita>>. (Gv.I).
Mitra, rappresentava nella religione mazdeista l’alfa e l’omega della creazione; come aveva dato il principio facendo trionfare la luce sulle tenebre così ne avrebbe suggellato la fine con quel giudizio universale che avrebbe chiuso il sipario sulla grande sceneggiata dell’universo.
Praticamente nel concetto della religione Mazdeista, come in quella cristiana, che ne è la perfetta riproduzione, la creazione, con il suo principio e la sua fine, veniva racchiusa tra due parentesi che, precedute e seguite come erano dal caos e dalle tenebre, si aprivano e si richiudevano nel nulla.
E sarà su questa sceneggiata che la religione mazdeista poggerà la sua escatologia. Coloro che avranno seguito i suoi insegnamenti avranno la ricompensa di risorgere in una luce spirituale eterna, i reprobi saranno rigettati nel caos e nelle tenebre.
Che la Chiesa sia la prima a riconoscere che la figura di Gesù è stata costruita sui Soteres pagani e particolarmente su Mitra, ci viene confermato dal Papa Paolo III che, secondo una testimonianza di Mendoza, ambasciatore di Spagna presso il Vaticano, “osava spingere la sua irriverenza verso Cristo fino al punto di affermare che non era altri che il sole, adorato dalla setta mitraica, e Giove Ammone rappresentato nel paganesimo sotto forma di montone o di agnello. Egli spiegava le allegorie della sua incarnazione e della sua resurrezione mettendolo in parallelo con Mitra. Diceva ancora che l’adorazione dei Magi non era altro che la cerimonia nella quale i preti di Zaratustra offrivano a Mitra oro, incenso e Mirra, le tre cose attribuite all’astro della luce. Egli sosteneva che la costellazione della Vergine o, meglio, della dea Iside che corrisponde al solstizio in cui avvenne la nascita di Mitra (25 dicembre), erano state prese come allegorie per determinare la nascita di Cristo, per cui Mitra e Gesù erano lo stesso dio. Egli affermava che non c’era nessun documento valido per dimostrare l’esistenza di Cristo per cui la sua convinzione era che non era mai esistito>> (3).

(1). I Soteres si facevano nascere in luoghi oscuri, quali le grotte, perché potessero dimostrare come partendo da uno stato di buio si potesse passare alla luce.
(2). La religione Mazdeista, come d’altronde tutte le religioni che considerano come inizio dei tempi il giorno in cui era stata realizzata la creazione, affidava il concetto dell’eternità ad uno stato di caos e di tenebre, ad un disordine cosmico che rappresentava il nulla.
(3). Cascioli Luigi per aver osato sostenere la stessa cosa è stato condannato dal Tribunale della Corte d’Appello di Roma a un’ammenda di Euro 1.500- Vedi sentenza in data 24 ottobre su www.luigicascioli.it sotto voce “PROCESSO”.

Platone

Il ruolo d’intermediario tra lo spirito e la materia che la religione mazdeista aveva attribuito a Mitra, prima per realizzare la creazione dell’universo e poi per svolgere la sua missione salvifica, diede spunto a Platone per esprimere le proprie convinzioni sui due interventi; il primo, quello riguardante la creazione del mondo e l’amministrazione delle leggi fisiche e spirituali che lo regolano, la trasferì in un concetto filosofico che vedeva Dio affidarlo ad un’entità astratta che lui chiamò “Ragione”, il secondo, quello che si riferiva alla salvezza degli uomini, non a un dio disceso sulla terra come nei Culti dei Misteri, ma lo assegnò ad un uomo saggio ed onesto di cui ne preconizzò l’avvento, senza però indicarne la data, che indicò anonimamente con l’appellativo di “Giusto”: << Verrà un “Giusto” che dai suoi nemici sarà frustato, torturato, legato, gli saranno bruciati gli occhi e infine, dopo avergli fatto soffrire tutti i mali possibili, sarà messo al palo >>.
Un’elaborazione di antichi concetti pagani che se ebbe successo presso il mondo greco ciò dipese dal semplice fatto che, sostenendo l’esistenza di un Dio creatore, fu usata dai governi ellenisti per combattere quei filosofi matematici, quali Parmenide, Eraclito, Anassagora, Diogene, Democrito, Epicuro che con il loro ateismo si opponevano al condizionamento religioso di cui hanno bisogno gl’imperialismi per imporre la propria egemonia sui popoli.
Sarà da questa teoria che si formerà nel primo secolo d.C. quella corrente neoplatonica che determinerà l’evoluzione religiosa essena che ci porterà ai Cristiani di cui ci parla Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano.

Rivolta dei Maccabei.

Nonostante l’accesa rivalità che si protraeva da secoli, i Giudei e i Samaritani furono costretti a stipulare un’alleanza allorché il re Antioco IV, detto Epifane, minacciò di estinguere la razza ebraica imponendo ai suoi sudditi le leggi e i culti ellenisti: <<I soldati del re stracciavano i libri della legge mosaica che riuscivano a trovare e li gettavano al fuoco. Se alcuno veniva trovato in possesso di una copia del libro dell’Alleanza o ardiva obbedire alla sua legge, la sentenza del re lo condannava a morte. Mettevano a morte secondo gli ordini, le donne che avevano fatto circoncidere i loro figli, con i bambini appesi al collo e con i familiari, e quelli che li avevano circoncisi. Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vincere per non mangiare cibi immondi e preferirono morire>>. (I Mc. 1, 56).
Cosa sarebbe rimasto agli ebrei se gli fosse stato interdetto di seguire le leggi degli antichi padri riportate nel Pentateuco, se gli fossero state proibite tutte quelle tradizioni, quali la Pasqua, le Capanne e la Pentecoste, che rappresentavano per essi, sparsi come erano in tutto il mondo e privi di una nazione propria, l’unico collante che li teneva uniti?
Su quali basi avrebbero potuto sostenere la loro identità di popolo se fossero stati privati di quei riferimenti storici da cui facevano dipendere la loro progenie ebraica, quali l’Alleanza stipulata con il Signore loro Dio, la liberazione dall’Egitto, le tavole della legge, il Regno d’Israele con i suoi eroi Saul e Davide che, anche se sostenuti con interpretazioni differenti, rappresentavano comunque, sia per i Samaritani che per i Giudei e gli ebrei rimasti pagani, la sola possibilità su cui basare la speranza di avere anch’essi una patria attraverso quella che era la rivendicazione della Palestina? Costretti a seguire le leggi e i costumi di un’altra civiltà, quale quella ellenista, sarebbero inesorabilmente scomparsi, finiti nel nulla.
L’alleanza tra i Giudei, sostenitori di un Messia davidico guerriero, e i Samaritani, seguaci di un Messia spirituale, avvenne nell’anno 167 a.C., cioè subito dopo che Mattatia il Maccabeo aveva dato inizio alla rivolta contro Antioco IV: <<In quel tempo si unì con i Maccabei un gruppo degli Asidei, i forti d’Israele (Samaritani) e quanti si volevano mettere a disposizione della loro legge. Così organizzarono un contingente di forze e percossero con ira i peccatori e gli uomini empi con furore. Mattatia e i suoi amici andarono in giro a demolire altari pagani e fecero circoncidere a forza tutti i bambini non circoncisi che trovavano nel territorio d’Israele, non diedero tregua ai superbi e l’impresa ebbe buona riuscita nelle loro mani, difesero le loro leggi dalla prepotenza dei popoli e dei re e non la diedero vinta ai peccatori>> (I Mc. 2;42).
Chi erano questi Asidei, ritenuti i forti d’Israele, il cui nome, significando “pii, devoti”, esprimeva tutto un impegno allo studio e alla meditazione religiosa, che si unirono ai Maccabei per combattere Antioco IV, che poi ritroviamo con il nome di “esseni” sotto l’invasione romana? Essi erano quella casta religiosa samaritana che, elaborando i principi della religione mitraica, si era costruito un dio trascendentale che prometteva una vita eterna a coloro che avessero seguito gl’insegnamenti del Messia celeste che sarebbe sceso sulla terra quale intermediario tra lo spirito e la materia.
Il luogo dove avvenne la riunione che suggellò l’alleanza tra i Giudei di Mattatia, gli Asidei d’israele e tutti gli altri ebrei ancora pagani fu Masfa (località tra Gerusalemme e il mar Morto che coincide geograficamente con la posizione del centro di addestramento dei rivoluzionari zeloti di Kimbert Qumran): <<Tutti coloro che insorsero contro gli editti di Antioco IV si radunarono e vennero in Masfa di fronte a Gerusalemme, perché nei tempi antichi Masfa era stato luogo di preghiera in Israele. In quel giorno digiunarono, si sparsero la cenere sul capo e si stracciarono le vesti. Aprirono il libro della loro legge per scoprirvi quanto i pagani cercavano di sapere dagli idoli dei loro dei. (Esplicito riferimento allo studio delle religioni pagane al quale si dedicavano i Samaritani per accedere ai Culti dei Misteri). Portarono le vesti sacerdotali, le primizie e le decime e fecero venire avanti i Nazirei (casta parasacerdotale, alla quale potevano appartenere anche le donne (1) (Num. 6), che continuò ad essere impiegata durante l’era messianica e dopo il 70 dalle comunità essene nel suoi specifici compiti, quali l’insegnare e far rispettare il Pentateuco, assistere i sacerdoti nello svolgimento del culto e propagandare la loro ideologia religiosa) che avevano compiuto i giorni del loro voto, e alzarono le mani al cielo gridando: che faremo di costoro e dove li condurremo, mentre il tuo santuario è conculcato e profanato e i tuoi sacerdoti sono in lutto e desolazione? Come potremo resistere di fronte ai pagani se tu non ci aiuterai? Dopo di questo Giuda stabilì i condottieri del popolo, i comandanti di mille, di cento, di cinquanta e di dieci uomini e disse a coloro che costruivano case o che stavano per prendere moglie, a quelli che piantavano la vigna o che erano paurosi, di tornare a casa loro, secondo la legge>>. (Mc. 3, 46). E sarà secondo questa legge, la legge dei loro padri, che le comunità ebraiche, costituite da coloro che non erano impegnati direttamente nei combattimenti, supporteranno, quali unità logistiche, il movimento rivoluzionario con i denari e le derrate che venivano raccolti in quei fondi comuni di cui ci parlano Giuseppe Flavio e Filone (2).
Così, mentre l'esercito si rafforzava per i volontari che accorrevano da tutte le nazioni per raccogliersi sotto Giuda il Maccabeo (I Mac. 3,9), le comunità si confermavano nell'ideologia nazionalista attraverso una reciproca esortazione a rispettare le leggi dei loro padri, come risulta dalle lettere inviate da Gerusalemme alle colonie ebraiche d'Egitto ( II Mc. I e segg.) che diventeranno nel primo secolo d.C. il fulcro dell’ideologia spiritualista essena.
Dai due libri dei Maccabei, usciti alla fine del II secolo a.C., possiamo avere la conferma di quanto fosse eterogeneo il mondo religioso ebraico.
C’erano i Giudei seguaci di un Dio antropomorfo (3) (Yahvet) che, considerando l’uomo soltanto nelle sue vicende umane, sollecitava la restaurazione del regno d’Israele attraverso una rivendicazione armata, c’erano i Samaritani sostenitori di un Dio trascendentale (Elohim) che seguivano un programma di conquista spirituale e gli ebrei che, ignorando ogni forma di monoteismo biblico, continuavano ad adorare le divinità pagane ereditate dai loro avi, come risulta dal II libro dei Maccabei: <<Intonato nella lingua paterna il grido di guerra che si accompagnava agli inni, i giudei diedero un assalto improvviso alle truppe di Gorgia e le misero in fuga. Il giorno dopo, quando ormai la cosa era divenuta necessaria, gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri dei loro amici per andarli a deporre nei sepolcri di famiglia. Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia che la Bibbia proibisce agli ebrei>>. (II Mc. 12-39).
Tre correnti religiose diverse che lottavano comunque unite perché mosse dal comune scopo di combattere Antioco IV che con i suoi editti minacciava l’estinzione della loro razza.

  1. Sono le due ancelle “ministre” che ritroviamo nella lettera di Plinio il G.
  2. <<Presso gli Esseni è ammirevole la vita comunitaria: invano si cercherebbe presso di loro qualcuno che possieda più degli altri. C’è infatti una legge che quelli che entrano nella comunità cedano il patrimonio alla corporazione>>. (Giuseppe Flavio . Guerra Giud. VII).

<<Tutto ciò che gli Esseni ricevono come salario del lavoro che svolgono in seno alle comunità lo depongono nel fondo comune, affinché sia impiegato a beneficio di quanti desiderano servirsene>>. Filone da “Ogni uomo onesto è libero”.
(3) Il Dio dei Giudei, a differenza di quello samaritano da concetto trascendentale, era presentato in una forma così antropomorfa, sia in quella che era la conformazione fisica che nell’applicazione delle sue ricompense e dei suoi castighi, da poter essere raffigurato ad un Babbo Natale che ricompensa i bambini buoni con le caramelle e i cattivi con i carboni.

Costruzione del Messia dalla duplice figura.

Quando nel -167 i Samaritani (Asidei) e i Giudei si unirono per combattere Antioco IV, ciascuna delle due fazioni si presentò con il Messia costruito secondo i propri concetti religiosi; i primi, con un Messia che avrebbe instaurato il regno di Dio discendendo dal cielo come predicatore, i secondi, con un Messia guerriero che avrebbe riconquistato con le armi, quale novello David, il regno d’Israele.
Due figure di Messia così contrastanti tra loro, l’una essenzialmente spirituale e l’altra prettamente terrena, da rappresentare un grave ostacolo per l’alleanza fra due fazioni che da secoli si contendevano l’egemonia sul mondo ebraico. Ma, ricorrendo a quel “volere è potere”, che in nessun altro ambiente può trovare una così facile applicazione come nel mondo religioso dove tutto si fa dipendere dall’interpretazione dei sogni e dalla fantasia, il problema fu risolto con la costruzione di un Messia dalla duplice figura, quella umana giudaica rappresentata dall’eroe davidico che guidava i rivoluzionari e quella spirituale samaritana che partecipava alle battaglie sotto forma di entità soprannaturale, come viene ripetutamente confermato nel II libro dei Maccabei in quei passi nei quali le due figure, in una forma di cooperazione del tutto simile a quella praticata tra le forze di terra e l’aviazione, vengono rappresentate, l’una dai figli di Mattatia, quali conduttori dell’esercito rivoluzionario e l’altra da un cavaliere che terrorizza i nemici dall’alto di apparizioni celesti. (II Mc. 3-23; II Mc. 12-15,25).
Come conseguenza dell’influenza spiritualista samaritana (Da Maccabei si chiameranno Asidei) s’introdusse nel movimento rivoluzionario il concetto d’oltre tomba che produsse quei primi martiri che, pur di conquistare la vita eterna, affrontarono le torture più atroci, prima con gli Ellenisti (vedi Eleazaro - II Mc.6-18 - e la madre dei sette fratelli - II Mc.7-1) e poi con i Romani (vedi Stefano At. 7-59), dei quali così ci parla Giuseppe Flavio: <<Disprezzano i pericoli e superano i dolori attraverso la riflessione. Quando giunge con gloria, considerano la morte migliore della vita. I loro spiriti, del resto, furono sottoposti ad ogni genere di prove dalla guerra contro i romani, durante la quale furono contorti, bruciati e fratturati, fatti passare sotto ogni strumento di tortura, affinché bestemmiassero il loro Dio legislatore oppure mangiassero alcunché che la loro religione considerava illecito, ma rifiutarono ambedue le cose. Neppure adularono mai i loro tormentatori né mai piansero.
Sorridendo, anzi, tra gli spasimi e rivolgendosi ironicamente verso coloro che li torturavano, affrontavano la morte come coloro che stavano per riceverne un'altra. Infatti, è ben salda in loro l'opinione che i corpi sono corruttibili e instabile è la materia, mentre le anime vivono in eterno
>>. (Guerra Giud.).
Per Gli esseni, come per i Mitraici, il corpo e lo spirito facevano parte di due dimensioni che si escludevano; come una entità celeste avrebbe perso la sua perfezione se si fosse confusa con la materia, così gli uomini non avrebbero potuto raggiungere la perfezione che gli avrebbe permesso di vivere in eterno se non si fossero liberati della corruzione della carne responsabile di tutte le debolezze umane, compresa quella di cedere al dolore fisico.

Costruzione del Messia spirituale con la visione di Daniele. (164 a.C.).

Se l’immagine del Messia giudaico era stata facilmente resa comprensibile perché sostenuta dalla figura di un uomo che sarebbe uscito dalla stirpe di David, quella del Messia Asideo si mostrava estremamente complessa nella sua rapresentazione dal momento che doveva riunire nella stessa persona la natura umana che gli permetteva di contattare gli uomini e la divina che doveva rimanere integra nella sua spiritualità celeste; se si fosse incarnato da predicatore avrebbe cessato di essere purissimo spirito, se fosse rimasto purissimo spirito non si sarebbe potuto incarnare da predicatore: o l’una o l’altra.
Il problema, insolvibile per la ragione, fu risolto dai teologi Asidei ricorrendo ancora una volta ai sogni e alle visioni di cui vollero garantirne la veridicità specificando che erano stati nientemeno che notturni. (1).
I sogni da cui trassero il Messia di cui abbisognavano li attribuirono ad un certo Daniele che neppure la Chiesa sa dirci chi fosse dibattendosi tra due personaggi quanto mai immaginari, uno esistito tra Noè e Giobbe, cioè in una forcella di tempo comprendente sei secoli (Ez.14-14,20 ), e un altro vissuto al tempo del re Nabucodonosor. (Dn.1-6).
Comunque una cosa è certa, perché facilmente dimostrabile se si esaminano le profezie di Daniele con un minimo d’intelligenza e di buon senso, che esse furono scritte dagli stessi Asidei subito dopo la morte di Antioco IV avvenuta nel –164.
Tra le tante fesserie riportate nelle profezie attribuite a questo fantomatico Daniele questa è quella che s’inventarono per dare una fisionomia al loro Messia spirituale: <<Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a figlio di uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto>>. (Dn. 7,13). (2).
È in questa descrizione che ce lo presenta come “uno simile a figlio d’uomo” che fu raggirato l’ostacolo dell’incarnazione. Praticamente, gli spiritualisti Asidei, risolsero il problema costruendosi un Messia che sarebbe disceso sulla terra ma senza incarnarsi; un intermediario che avrebbe svolto la sua missione di predicatore assumendo dell’uomo soltanto le apparenze (3).
Costruita così la figura del loro Messia spirituale attraverso un’immagine onirica, non gli fu difficile esaltarlo nella sua grandezza di prescelto da Dio sul calco di Mitra, ma per quanto lo avessero glorificato e magnificato attribuendogli tutte le virtù che competono ad un essere soprannaturale, quali l’eternità e una gloria senza fine, gli Esseni mai gli conferirono una completezza divina per quell’imposizione che gli era stata data dal loro stesso Dio di riconoscere lui, soltanto lui, per hcome tale, unico e vero: <<Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me>>.
E sarà per l’osservanza di questo comandamento che gli proibiva nella maniera più perentoria di non riconoscere altre divinità oltre il Signore, che gli Esseni considereranno il loro Messia un semi dio, cioè un “quasi deo”, come ci viene confermato da Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano.
Un semi dio il cui avvento, non essendosi ancora realizzato al tempo di Plinio, come in effetti non si realizzerà mai, veniva sollecitato all’alba, quale annunciatrice di quel sole al quale lo avevano associato ad imitazione di Mitra, con preghiere mattutine, come ci viene riferito da Giuseppe Flavio: << La pietà verso la divinità ha una forma particolare: prima del sorgere del sole non proferiscono alcunché di profano, ma recitano certe preghiere verso di esso quasi a supplicarlo di spuntare>>. (Guerra Giudaica- 57,62) e da Plinio il Giovane: <<…erano soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio (quasi deo)>>.

(1). Nei Testi Sacri è una pratica normale quella di ricorrere al trucco dei prestidigiatori che si soffermano sui dettagli più insignificanti per distrarre l’attenzione dalle manipolazioni che operano per far riuscire i loro giochi.
(2). Sarà da questa figura di Messia dal concetto essenzialmente spirituale, che dipenderà l’evoluzione religiosa essena che ci porterà a comprendere chi erano i cristiani della Bitinia e del Ponto).
(3) Su questo fantasma ectoplasmatico, come potrebbero definirlo oggi i seguaci dello spiritismo, la gnosi costruirà agli inizi del II secolo d.C., cioè dopo circa 250 anni, quel Salvatore che dichiarerà essere disceso sulla terra negli anni trenta prendendo dell’uomo soltanto le apparenze, che lo gnostico Valentino cercherà di giustificare nella sua assurda costituzione teologica con la seguente spiegazione: <<Il Salvatore, avendo tutto tollerato, divenendo padrone di se stesso, era giunto al punto di continenza che il cibo che mangiava non si corrompeva nell’interno del suo corpo perché in lui non poteva esistere corruzione della materia. Mangiava e beveva come un uomo ma, nel rispetto della sua natura essenzialmente spirituale, lo faceva in maniera particolarissima non restituendo gli alimenti>>.
Un metabolismo teologico che per quanto possa risultare affascinante nella sua stravaganza, rimarrà comunque sempre meno interessante di quello della dea Kalì che mangiava riso e cacava supplì.

I Romani succedono agli Ellenisti.

Nell’attesa del Messia dalla duplice figura, costruito durante la rivolta dei Maccabei, il movimento rivoluzionario, terminata l’occupazione ellenista, continuò la sua lotta di rivendicazione della Palestina contro i romani allorché nel 64 a.C. Pompeo entrò in Palestina con le sue legioni.
Le rivolte e le guerre contro Roma e il suo alleato Erode il Grande, promosse in prevalenza da rivendicazioni di successione al trono di Gerusalemme da parte della famiglia degli Asmonei, discendenti dei Maccabei, subirono un rafforzamento nell’anno + 6 per la concomitanza di due circostanze che, per il loro carattere politico e religioso, spinsero tutti gli ebrei e le stesse popolazioni autoctone ad unirsi in una ribellione contro i Romani in quella che fu la “Rivolta del Censimento”.
La circostanza di carattere politico che coinvolse tutte le popolazioni fu determinata dai tributi che Roma aveva imposto alla Palestina in seguito alla sua annessione all’Impero come provincia (prima era soltanto un protettorato), quella di carattere religioso, che interessò gli ebrei, dipese da una certa profezia di Giacobbe (Gn.49-10) nella quale si affermava che l’avvento del Messia si sarebbe realizzato “quando lo scettro di Davide sarebbe passato nelle mani di uno straniero”, avvenimento che secondo gli ebrei si era verificato proprio quell’anno per la sostituzione di Archelao, re giudaico, con il procuratore romano Coponio.
La partecipazione popolare dette tanto vigore alla rivolta da trasformarla in un vera e propria guerra che si protrasse con un alternarsi di vicende che videro spesso l’esercito rivoluzionario battere le legioni romane che, comunque, dopo due anni ebbero la meglio.
Nonostante la repressione fosse stata tremenda, si parla di 2000 crocifissi, lo spirito nazionalista ne uscì rinforzato per la convinzione che aveva portato i rivoluzionari a poter battere i romani se avessero avuto l’appoggio popolare, convinzione che spinse le due fazioni a riprendere con rinnovato fervore la propaganda di coinvolgimento delle masse alla rivoluzione seguendo ciascuna la propria ideologia, quella spiritualista essena attraverso predicazioni basate su una morale di comunismo e fratellanza diretto alle classi meno abbienti ( è la stessa che troviamo ricopiata sui vangeli canonici nel “discorso sulla montagna”) e la pratica del battesimo, quella rivoluzionaria giudaica, gestita dalla famiglia degli Asmonei, con azioni di terrorismo e di rappresaglia contro coloro che gli si opponevano.
Due metodologie che, seguendo ciascuna la propria esaltazione, gli spiritualisti Esseni (1) con i loro assembramenti di diseredati e affamati (vedi Giovanni Battista in Ant. Giud. XVIII,V, 116), i rivoluzionari con i loro attentati e stragi (vedi Teuda e Simone e Giacomo in Ant.Giud. XX, V, 97,125), trasformarono la Palestina in una terra di sommosse, di orrore e di sangue, come risulta dalle numerose citazioni riportate dagli storici del tempo e dagli stessi testi sacri allorché si riferiscono a quella banda dei Boanerghes che va a pregare all’orto degli ulivi armata di spade (vedi vangeli canonici).
<<Se i rivoluzionari non ricevevano quanto chiedevano, incendiavano le case dei signori che si rifiutavano e poi li uccidevano con le loro famiglie>>. (Filone ).
<<I rivoluzionari, distribuiti in squadre, saccheggiavano le case dei signori che poi uccidevano, e davano alle fiamme i villaggi si che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta efferate>>. (Giuseppe Flavio –confronta con Lc.9,54).
<<Quando i samaritani si rifiutarono di riceverli, allora i componenti la banda chiesero al loro capo: <<Signore vuoi che facciamo scendere su di essi un fuoco che li distrugga?>>. (Lc. 9,54).

(1). Gli Esseni che combattono contro Roma sono gli stessi Asidei che lottarono contro gli Ellenisti.

Superstizione balorda e perniciosa.

Se il fanatismo degli zeloti era esecrabile per le stragi e gli eccidi, che operava con la violenza delle armi, non lo era di certo meno quello degli spiritualisti esseni che spingeva i suoi seguaci ad una tale esaltazione religiosa da portarli ad affrontare le peggiori torture e la morte pur di non sottomettersi alle leggi dello Stato, quale quella che imponeva ai sudditi romani di riconoscere l’Imperatore come loro padrone che, se violata, comportava il reato di “lesa maestà” punibile con la morte.
<<Gli Esseni disprezzano i pericoli e superano i dolori attraverso la riflessione. Quando giunge con gioia, considerano la morte migliore della vita. I loro spiriti, del resto furono sottoposti ad ogni genere di prove dalla guerra contro i romani, durante la quale furono contorti, stirati, bruciati e fratturati, fatti passare sotto ogni strumento di tortura, affinché bestemmiassero il loro dio legislatore oppure mangiassero alcunché che la loro legge considerava illecito, ma rifiutarono ambedue le cose. Neppure adularono mai i loro tormentatori né mai piansero. Sorridendo tra gli spasimi e rivolgendosi ironicamente verso coloro che li torturavano, affrontavano la morte come coloro che stavano per riceverne un’altra.
Infatti è ben salda in loro l’opinione che i corpi sono corruttibili e instabile è la materia, mentre le anime vivono in eterno>>. (Guerra giud. IV 57-62).

<<Ci sono Esseni che spingono le regole fino all'estremo: si rifiutano di prendere in mano una moneta asserendo che non è lecito portare, guardare e fabbricare alcuna effigie; nessuno di costoro osa perciò entrare in città temendo di attraversare una porta sormontata da una statua, essendo sacrilego passare sotto le statue. Altri udendo discorrere qualcuno di Dio e delle sue leggi, si accertano se è circonciso, se non lo è attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si fa circoncidere; qualora non lo consenta essi non lo risparmiano, lo assassinano. Altri si rifiutano di dare il nome di padrone a qualsiasi persona, eccetto che a Dio solo, anche se fossero minacciati di maltrattamenti e di morte>>. (Ippolito Romano, scrittore del III sec.).
Un insieme di comportamenti che portò le popolazioni a provare per essi disprezzo, rancore e diffidenza.
Per i pagani, che stavano seguendo il sincretismo più ragionevole e pacifico, non poteva essere comprensibile come si potesse uccidere e essere uccisi per seguire leggi che obbligavano a non mangiare carne di porco, a respingere le immagini e a tagliarsi una parte del membro.
Fu per tutte queste assurdità che davano la convinzione di essere generate più da un’alienazione settaria che da una sana e ragionevole fede religiosa, che i romani accusarono gli Esseni di essere seguaci di una superstizione balorda, perniciosa ed esiziale secondo quanto viene riferito da Tacito (Lib. 15-cap.44), Svetonio (Vita dei 12 Cesari- Nerone) e da Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano.

Il Messia di Daniele si dimostra irrealizzabile.

uando nel II secolo a.C. gli Esseni si costruirono il Messia sul concetto platonico della Ragione attraverso la visione di Daniele, vennero a trovarsi, come già è stato sopra accennato, in una situazione paradossale per la costrizione che li aveva portati ad escluderlo da ogni coinvolgimento con la materia. Lasciandolo purissimo spirito, negandogli ogni forma di umanizzazione, come avrebbero potuto fargli svolgere la missione d’intermediario tra Dio e gli uomini? Per quanto avessero cercato di dare al suo spirito una parvenza umana, come avrebbe potuto, una volta sceso sulla terra, svolgere la sua missione se non si fosse umanizzato? Quando mai si sarebbe potuto verificare l’evento che gli avrebbe permesso di presentarlo al mondo come un predicatore che dell’uomo aveva preso soltanto le apparenze? Un assurdo che cercarono di riparare aggiungendo ad un certo libro di Henoch, scritto nella seconda metà del II secolo a.C., cioè subito dopo le visioni di Daniele, un altro testo dal titolo “Libro delle Parabole” nel quale, sempre riferendosi ad un sogno che attribuirono questa volta al profeta Henoch (1) fecero sparire quel “simile” che, con il suo astrattismo, rendeva impossibile la realizzazione dell’intermediario tra Dio e gli uomini.

In questo libro, infatti, il redattore dimostrerà un particolare impegno a umanizzare la figura del Messia non solo chiamandolo ripetutamente “Figlio dell’uomo”, ma attribuendogli anche le principali funzioni umane, quali quella del mangiare e del dormire (manca soltanto che ci dica il suo dentifricio): <<Io vidi Dio, la testa bianca come la lana, e accanto a lui un altro, come una visione d’uomo, l’aspetto leggiadro come un angelo santo. Chiesi allora al mio angelo: Chi è questo figlio d’uomo? Lui mi rispose: è il Figlio dell’uomo al quale appartiene la Giustizia. Questo Figlio d’uomo che tu hai visto toglie i re e i potenti dai loro letti. Il giorno è arrivato. Il Figlio dell’uomo è stato nominato davanti al Signore degli spiriti, il suo Nome esiste dall’inizio dei tempi. Il re e i potenti supplicano il Figlio dell’uomo, ma lui li consegna agli angeli dei supplizi perché siano puniti per aver oppresso gli eletti. Allora i giusti saranno salvati e mangeranno, si addormenteranno e si alzeranno per sempre con il Figlio dell’uomo>>.
Togliendo così l’aggettivo “simile”, resero realizzabile quel concetto di umanizzazione che dopo 260 anni, cioè nella seconda metà del II secolo, la Chiesa farà suo per costruire la figura del Messia incarnato nelle persona di Gesù.
Ma cosa significa figlio d’uomo? Di quale uomo può essere figlio questo Messia se è stato concepito da Dio dall’inizio dei tempi quando l’uomo non era stato ancora creato? Un interrogativo che nessuno saprà mai spiegare in maniera razionale e comprensibile.
C’è chi dice che viene chiamato così perché anche lui, come il primo uomo Adamo, è stato creato da Dio senza padre né madre (Gen. 2,7 – I Cr.15,44), chi sostiene che questa espressione gli viene riferita perché Dio l’ha concessa ai grandi profeti, quali Ezechiele (Ez. 44,5), chi dice ancora che è da considerarsi tale perché è stato il genere umano a determinare la sua nascita facendolo scendere dal cielo per la propria salvezza.
Chiacchiere, tutte e soltanto chiacchiere, che non servono ad altro che a dimostrarci ancora una volta quanto la teologia sia quella SCIENZA DEL NULLA a cui i preti ricorrono per truffare come i ciarlatani per sostenere il gioco delle tre carte.
Figlio d’uomo non può significare altro che egli è un uomo generato da un altro uomo. Se si vuole che Cristo sia riconosciuto come tale nella sua incarnazione non ci vengano portate come prove Ezechiele e nascite varie, ma soltanto ci si dica, facendo un esame del suo sangue preso dai vari Corporali e Sindoni, da dove vengono fuori i 23 cromosomi maschili che lo hanno procreato. Ammesso, ma non concesso, che questo sangue risulti veramente suo, chi potrebbe avere più interesse della Chiesa di confermare la sua incarnazione attraverso il DNA dello Spirito Santo?
A un prete, al quale ho chiesto cosa significava quel “simile” espresso da Daniele quando il Messia viene poi dichiarato un “uomo” a tutti gli effetti, mi ha risposto che ciò é dipeso dal fatto che la visione, essendo notturna, era risultata confusa ed incerta… e questo è il valzer dell’organino…umpappà, umpappà…
Ma siccome non è per ridere delle panzane della teologia, ripeto la SCIENZA DEL NULLA, che ho citato Henoch, ma soltanto per arrivare alla dimostrazione che il Messia a cui si rivolgevano i cristiani di Plinio il Giovane non era quello che si era realizzato nascendo da Maria Vergine, ma piuttosto il Messia atteso dagli Esseni, rientriamo nel tema riportando ciò che viene detto nel libro di Henoch su questo “Figlio dell’uomo” il cui nome deve rimanere segreto fino al giorno del giudizio universale.
<<Il suo nome fu pronunciato (2) davanti a Dio prima del sole e tutte le altre cose che furono create, prima che le stelle del cielo fossero fatte.
<<È il Figlio dell’uomo che possiede la giustizia. Egli è l’eletto, siederà sul suo trono e tutti i segreti della saggezza saranno rivelati dalle sentenze che usciranno dalla sua bocca poiché Dio lo ha gratificato di questo dono.
<<Egli sarà il sostegno dei giusti, la luce dei popoli, la speranza di coloro che soffrono. Egli sarà il vendicatore della loro vita.
<<Il Figlio dell’uomo giudicherà le cose segrete, condannerà i re, i potenti e tutti coloro che dominano sulla malvagità, ma i giusti e gli eletti saranno salvati nel giorno del giudizio e con lui vivranno in eterno.(3). In questi giorni del giudizio non sarà permesso di salvarsi né con l’oro né con l’argento e non sarà permesso di fuggire. Tutte le cose saranno distrutte ed annientate sulla faccia della terra quando apparirà l’Eletto davanti la faccia del Signore degli spiriti.
<< Il Figlio dell’uomo sceglierà presto i giusti e i santi poiché il giorno del giudizio è vicino.
<<In questa attesa, il giorno della sua discesa dal cielo, il suo ruolo di Salvatore e il suo nome rimarranno segreti. È perché il suo nome fosse a tutti nascosto (4), che Dio lo ha creato per primo e per l’eternità.
<<Sarà la preghiera dei giusti e degli eletti ad impedire che questa attesa non sia eterna>>.

  1. Henoch è un altro personaggio immaginario come Daniele rabattandosi tra uno che viene dichiarato figlio di Caino (Gen. 4,179 e un altro, figlio di Jared, che visse 365 anni (Gen.5-18,24) del quale viene scritto che disparve senza conoscere la morte perché rapito in cielo da Dio.
  2. Nel linguaggio biblico nominare qualcuno davanti a Dio significa dargli l’esistenza.

3. Le stesse minacce verso i malvagi e ricompense per gli eletti che ritroviamo nell’Apocalisse.

4. Sarà per questa interdizione a rivelare il nome del Messia che gli Esseni si rivolgeranno a lui sempre con appellativi, quali Salvatore, Signore, Agnello, Verace, Fedele e tanti altri tra cui quello di Gesù che, significando “colui che salva”, esprime lo stesso significato di “Salvatore”. Soltanto nella seconda metà del II secolo l’appellativo di Gesù acquisirà il valore di nome proprio quando i Cristicoli lo attribuiranno come tale al loro Cristo, come viene confermato da Celso nel suo “Discorso Veritiero”, scritto intorno agli anni 180 proprio quando i Cristicoli stavano scrivendo i vangeli, nel quale dice che l’eroe al quale hanno dato il nome di Gesù era in realtà un capo brigante.

Il Messia di Henoch è anch’esso irrealizzabile.

Ma per quanto gli esseni avessero cercato di dare al loro Messia tutte le qualità che erano state attribuite a Mitra, quali il concepimento prima della creazione, l’autorità del giustiziere che avrebbe presieduto il giudizio universale e lo avessero definito nella figura umana, due grossi problemi rimanevano ancora da risolvere; come far assolvere il ruolo di un predicatore incarnato ad un essere che, pur potendo prendere sembianze umane, doveva comunque rimanere purissimo spirito, e come realizzare un evento che, a differenza di quello di Mitra che era stato riferito al passato, doveva compiersi nel futuro, quindi esigente di prove che lo confermassero nella sua eventuale manifestazione.
Fu allora che per uscire da questo impasse pensarono di risolvere il primo problema ricorrendo al pensiero platonico che separava lo spirito dalla materia, affidando la parte divina del loro Messia al concetto spirituale della “Ragione” e la parte umana a quel “Giusto” che avrebbe pagato con la morte la sua missione moralizzatrice, e la parte umana a un predicatore che veniva fatto figurare come se avesse già svolto la sua missione, cioè ad un uomo che non si doveva più attendere, perché precedentemente vissuto, nella persona di certo personaggio enigmatico che chiamarono “Maestro di Giustizia”.
La costruzione del “Figlio dell’uomo” in questo “Maestro di Giustizia” si trova confermata in un testo ritrovato a Qumran sotto il nome di “Commentario d’Habacuc”.
Senza dirne il nome, viene presentato nella persona di un prete che, ripieno d’ispirazione divina, aveva costituito una comunità monastica, basata sulla castità, la povertà e la fratellanza, i cui adepti si erano proclamati “Eletti di Dio”.
Entrato in lotta con la classe sacerdotale per le ricchezze che accumulava e le cariche pubbliche e religiose che accentrava, dissero che era stato ucciso per lapidazione dopo essere stato torturato commettendo “orrori su di lui e vendette sul suo corpo di carne”.
In un passaggio del Commentario d’Habacuc viene preannunciato che il Maestro di Giustizia sarebbe riapparso il giorno dell’Espiazione (1) per confondere i suoi persecutori e fargli scontare le loro colpe (pagargli il loro sabato) e in altro si legge ancora che l’entrata in Gerusalemme con la conseguente profanazione del Tempio da parte di Pompeo erano state volute da Dio per punire la sua morte. (2).
Tutte evidenti frottole inventate per costruire un personaggio nel quale si era realizzata quella simbiosi tra spirito e materia che avrebbe permesso di ottenere le due cose di cui avevano bisogno, eliminare l’avvento del predicatore procrastinato nel futuro trasferendolo al passato e rendere possibile al Messia spirituale di svolgere la sua missione terrena affidandola ad un uomo che aveva agito sotto la sua ispirazione.
Questo concetto di fusione tra lo spirito e la materia che permette al primo di dominare l’uomo facendolo comportare come un robot sotto la sua ispirazione, è stato poi ripreso dalla Chiesa in quella che è l’ascendete dello Spirito Santo su coloro che esso sono stati compenetrati, come ci viene confermato in quel passo degli Atti degli Apostoli in cui gli apostoli cominciarono a comportarsi sotto la sua azione come degli alienati tanto da essere presi per ubriachi dalla folla che si era riunita intorno a loro. (At.2).
È lo stesso fenomeno che, sempre secondo le convinzioni della Chiesa, si riscontra nel comportamento degli invasati; come costoro parlano ed agiscono sotto la forza di Satana, così i Santi sotto l’influsso divino tanto da arrivare a dire, per confermarne la loro assoluta subordinazione: <<Non sono io che parlo, ma è Cristo che parla in me>>.
Anche se irriverente verso coloro che di queste stravaganze ne hanno fatto la base della loro morale, non posso evitare di concludere, per spiegare l’effetto dello Spirito Santo sugli uomini, che tra le sue fiammelle e i vapori di un grappino non ci corrono poi così grandi differenze.
Chi era in realtà questo “Maestro di Giustizia” che aveva sacrificato la propria vita ed aveva sofferto da parte dei suoi nemici le torture più atroci che il “Commentario d’Habacuc”, riferendosi al “Giusto” di Platone, chiama Maestro di Giustizia senza però dircene il nome per quell’imposizione che si erano data di lasciarlo nel più assoluto segreto?
Per me nessuno, assolutamente nessuno, soltanto il prodotto un’altra invenzione pretina studiata per gabbare i fessi anche se alcuni esegeti, quali Dupont-Sommer (Premiers Apercue) e Millar Burrows (Le Manuscrits de la Mer Morte), sono propensi ad identificarlo in un certo prete Onia che fu condannato a morte da Ircano II nel periodo che precedette l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio da parte di Pompeo.
Negli anni che seguirono, se la figura del “Maestro di Giustizia” rimase nella memoria degli Esseni nella sua figura di Messia spirituale invocato sotto questo appellativo, come risulta dai Rotoli di Qumran, e da un certo documento di Damasco che fu ritrovato nel 1900 in una sinagoga del Cairo, quella del predicatore rappresentata da un prete, già debole nella sua costruzione, non tardò a sparire assorbita come fu dagli eventi che seguirono, quale la profezia di Giacobbe che annunciando prossimo l’avvento del Messia uomo escludeva quella di un qualcuno che poteva esserci stato prima.

(1) La festa dell’Espiazione, che ricadeva il decimo giorno del settimo mese, rappresentava per gli Ebrei la remissione dei peccati del popolo. In questa ricorrenza era obbligatorio il digiuno.
La parola “espiazione”, dal verbo ebraico “cofar” che significa cancellare, annullare, esprime l’annullamento dei peccati che veniva richiesto a Dio dietro il sacrificio di un animale nel quale il supplicante li aveva trasferiti.
Praticamente il sangue dell’animale lavava i peccati che l’uomo aveva travasato in esso.
L’animale usato presso gli ebrei, come è logico che fosse, dal momento che erano allevatori di pecore, era l’agnello. Se fossero stati allevatori di maiali sarebbe stato un porco, se di somari, un asino.
Il giorno dell’Espiazione il Sommo Sacerdote prendeva due capri (da qui l’espressione di “capro espiatorio” e svolgeva la cerimonia nel seguente modo: metteva le mani sulla testa dei due agnelli e dopo aver confessato i peccati del popolo accollandoli alle due bestie, mentre uno lo sgozzava per purificare col suo sangue il Tempio, l’altro lo cacciava nel deserto perché si portasse dietro le colpe degli uomini.
Il Cristianesimo, impossessatosi di questo concetto di remissione dei peccati attraverso il sacrificio dell’agnello, lo trasferì in Gesù Cristo presentandocelo come colui che aveva versato il proprio sangue per riscattare i peccati degli uomini di cui si era fatto portatore.
Naturalmente, per nascondere la tardività della sua costruzione, avvenuta nella seconda metà del II secolo, cerca di attribuire al suo Gesù tutti quei passi che nei documenti esseni, quale l’Apocalisse, in realtà si riferiscono all’agnello dei riti ebraici. Ma l’Agnello dell’Apocalisse non ha nulla a che vedere con il Gesù dei cristicoli, sia perché non viene fatto morire in croce e sia perché rappresenta, nella sua duplice simbologia ebraica, l’ariete che comanda sul destino degli uomini e l’agnello pasquale dell’Esodo che fu immolato a Dio in ringraziamento della liberazione dalla prigionia d’Egitto.

(2) Lo stesso motivo usato per attribuire una sventura del popolo ebraico ad un castigo di Dio sarà portato per giustificare la sconfitta del loro esercito da parte Areta de Petra che si farà dipendere dalla morte di Giovanni Battista voluta da Erode Antipa. (Guerra Giud. XVIII, 116).

Il Logos di Filone.

Anche se la profezia di Giacobbe aveva ravvivato nei giudei l’attesa dell’eroe davidico che avrebbe restaurato il Regno d’Israele, gli Esseni continuarono a sostenere attraverso la preghiera l’avvento del loro Messia, quel Messia spirituale al quale per quanto avessero cercato di renderla umana attraverso la visione di Henoch rimaneva comunque nella sua immagine virtuale chimerico ed utopico.
Quando si sarebbe potuto verificare il fatto da poter dire al mondo, indicando un predicatore, che per giunta doveva avere dell’uomo soltanto le apparenze, che era egli colui che essi aspettavano, che era colui che avrebbe realizzato il regno di Dio sulla terra? Certamente mai! E l’attesa si sarebbe così protratta in un futuro senza fine, come d’altronde ancora lo è per gli Ebrei che continuano a seguire le profezie bibliche (1), (Spiegare con il presente la situazione.. mosche Daiano, Scharon …), se un certo Filone, filosofo esseno di Alessandria, non avesse risolto il problema dando al loro Messia la possibilità di contattare la materia senza doversi incarnare, cioè di comunicare con gli uomini pur rimanendo spirituale.

L’idea di Filone fu quella di sostituire la figura del predicatore nel suo ruolo d’intermediario con una voce che scendeva dal cielo. Praticamente permise al Messia esseno di compiere la missione salvifica attraverso la propria voce e in una maniera così completa ed assoluta nella sua identificazione messianica da personificarlo in essa chiamandolo “Logos”, che in greco significa appunto “parola”. <<Per Filone il “Logos” non è soltanto parola nel significato astratto che gli veniva conferito nel Platonismo, ma parola nel significato esteriore. Esso è l’immagine visibile, la figura di Dio come viene realizzata da Paolo in forma di parola sulla strada di Damasco>>. (Bossi –Cristo non è mai esistito –Pag. 178).
La figura di questo Messia (Logos) che avrebbe contattato gli uomini attraverso la parola si diffuse presso tutte le comunità del Medio Oriente per opera dei predicatori Nazir che, pur di avallarla, non si fecero scrupolo, da ciarlatani quali sono i sostenitori di tutte le religioni, di dichiarare di averla udita loro personalmente nei suoi messaggi sotto forma di apparizioni, come nel caso di Paolo di Tarso sulla strada di Damasco. Ognuno di essi, naturalmente, riferiva di aver sentito quello che più gli faceva comodo per poter imporre agli altri le proprie convinzioni tanto da esserci nel giro di qualche lustro tanti di quei Cristi che è impossibile contarli. Ci fu il Cristo di Paolo, di Cefa, di Apollo, di Iezabele, di Balaam e perfino il Cristo di Cristo, come risulta dall’Apocalisse (2-1,12) e dalla prima lettera ai Corinzi. (1,12).
Sviluppatosi in Alessandria e nella regione della Mareotide per opera dei Terapeuti, passando per Antiochia e Damasco, il Cristo-Logos si espanse a sud del Mar Nero nelle regioni della Bitinia e del Ponto e quindi nelle città del bacino del Mediterraneo quali Smirne, Pergamo, Tiatira, Sarti, Filadelfia, Laodicea e Efeso come ci viene confermato dal secondo capitolo dell’Apocalisse che è uno di quei quattro che furono aggiunti nel 95 all’edizione del 68. Ed è proprio in questi quattro capitoli, scritti nel 95, che troviamo ulteriori prove confermanti la natura essena di quella superstizione balorda e perniciosa di cui parlano Tacito, Svetonio, Plinio il Giovane e tutti gli altri autori che saranno trattati nelle confutazioni che seguiranno, quali Trifone e Frontone.

Il Messia assume il nome di Cristo soltanto dopo il 70.Cristiani e Cristicoli.

Per sfuggire alle persecuzioni che seguirono la sconfitta del 70, gli esseni spiritualisti si ritirarono nelle loro comunità dove, ostentando una vita virtuosa e pacifista, ripresero con rinnovato zelo la politica di proselitismo aprendo le porte a quanti volevano convertirsi alla loro religione, sia che provenissero da altre sette ebraiche che dal mondo pagano.
Promettendo vitto e alloggio e dando la possibilità di cambiare il nome con il battesimo, come una legione straniera, le comunità essene divennero dei veri e propri centri di reclutamento per frustrati, falliti, visionari, avventurieri e ogni sorta di latitanti. (Saranno poi costoro, in prevalenza di origine pagana, che, separandosi dagli esseni di origine ebraica a causa dell’istituzione dell’Eucaristia, andranno a costituire il cristianesimo di Madre Chiesa nella seconda metà del II secolo).
L’offerta di asilo determinò un afflusso così imponente da portare il numero dei convertiti a superare gli esseni stessi tanto da obbligare le comunità ad adottare il greco, quale lingua più diffusa nel medio Oriente, per lasciare l'ebraico soltanto nella celebrazione dei riti.
<<Fu in questo periodo, appunto per l’uso del greco che si era imposto nelle comunità essene del Medio Oriente, che la Bibbia, detta dei 70, fu tradotta in questa lingua contrariamente a quanto viene raccontato dalla Chiesa che fa dipendere la sua traduzione da un certo Tolomeo Filadelfo, re d'Egitto nel II secolo a.C.>>. ( Josif Kryevelev - Calendario del Popolo. Ed. Teti).
Come conseguenza di questa adozione della lingua greca l'appellativo di Messia venne tradotto con Christos che in greco significa appunto Messia, cioè “unto”: <<Il Messia lungamente atteso nell'atmosfera spirituale dell'ellenismo che si diffuse tra le comunità giudaiche della diaspora, assunse popolarità con il nome di Cristo soltanto dopo il 70. La parola Cristos significa in greco antico ciò che significa in ebraico la parola Mashiah: l'unto, dal greco crio, ungere>>. (Josif Kryvelev. Op. cit. -8).
Fu in seguito a questa trasformazione di Messia in Christos, avvenuta dopo la diaspora del 70, che gli Esseni furono chiamati Cristiani, ma con un senso dispregiativo, dalle popolazioni presso cui vivevano, come ci viene confermato da Tacito allorché dice chiaramente che questo nome gli era stato dato dal volgo come espressione offensiva verso di essi: <<Il volgo li chiamava cristiani perché invisi per i loro misfatti>>. (Ann. Lib.15 –cap.44).
Prendendo spunto dal continuo uso di olio col quale abitualmente si cospargevano per curare le malattie e celebrare i riti, se li chiamarono cristiani non fu perché seguaci di Cristo ma per dimostrare tutto il disprezzo che avevano verso questi seguaci di una setta malefica e perniciosa che, oltre ad essere socialmente pericoli, praticavano una vita miserabile da barboni dai capelli lunghi, ingrassati nelle loro persone come topi caduti in un orcio (1) e con indosso vestimenti fatti di stracci: <<Gli esseni consumano i pasti nella forma più frugale e spesso esclusivamente vegetariana, non cambiano né vestiti né sandali se prima non sono del tutto consumati e lacerati dal tempo>>. (Gius. Fl. Guerra Giud. Cap.IV).
Basta ricordare alcuni degli altri nomi che gli erano stati dati dalle popolazioni presso cui vivevano per comprendere quanto il significato offensivo dato alla parola cristiani trovasse giustificazione nella loro povertà e sporcizia: Ebioniti, da “ebion” che signica povero e Nazirei dalla pratica che seguivano di farsi crescere i capelli secondo l’uso dei Nazirei.
<<Il termine cristiano è nato in un ambiente non palestinese: è probabile che venisse usato in termine di ironico disprezzo (gli “unti”, gli “ingrassati”) per distinguere dagli ebrei della Sinagoga i nuovi convertiti, gente strana, dalla lunga capigliatura sporca e trascurata un po' come i nostri “capelloni”>>. (A. Donini. Storia del Cristianesimo. Ed.Teti. pag. 29).
L’origine etimologica di cristiano, quindi, non essendo nata in Palestina, la terra di Gesù, contrariamente a quanto si crede, non viene dal un Cristo fondatore di una religione, ma semplicemente dal verbo ungere con un significato dispregiativo avente lo scopo di infamare i seguaci di una superstizione che imponeva la miseria e la sporcizia.
È per questo significato offensivo che era stato dato al termine di cristiano che possiamo comprendere il motivo per cui non lo si trova mai riportato sulle tombe degli Esseni. Mettere “cristiano” su un epitaffio sarebbe stato come scrivere oggi su una lapide la parola “mafioso”.
Se l’appellativo di “Cristo” è stato coniato soltanto dopo il 70 in seguito alla traduzione in greco di “Messia”, il chiamare cristiani, come fa la Chiesa riferendosi a quelli che lei dichiara essere stati i primi seguaci di Gesù, quale la comunità di Gerusalemme riportata negli Atti degli Apostoli, è un vero e proprio abuso che basterebbe da solo per dimostrare che tutto ciò che si riferisce alla storia della sua primitiva fondazione non è altro che un’impostura costruita su falsificazioni e inventatici, per giunta, anche mal raccontati.
Se i cristiani appartenenti alla superstizione balorda e perniciosa di cui ci parla Plinio il Giovane, fossero stati veramente i seguaci di Gesù morto nel 33, come può spiegare la Chiesa che erano stati espulsi da Roma già precedentemente a questa data come giustamente ci fa rimarcare Emilio Bossi nel suo libro “Cristo non è mai esistito” a pag. 36?: << Tacito, parlando delle espulsioni da Roma dei seguaci di una “superstizione nefasta” (esitialis) ci dice che esse furono applicate due volte sotto Augusto e una terza volta nel 19 sotto Tiberio>>. (Annali - Lib. II cap. 85).
Che i cristiani di cui parla Plinio il Giovane non erano i cristicoli di Santa Madre Chiesa, ma i seguaci del Cristo esseno, ci viene addirittura confermato da un padre della Chiesa, Sant’Epifanio, che questo dice a proposito di essi: “I seguaci di Cristo che vivevano nella regione della Mareotide erano gli esseni d’Egitto a cui era stato dato il nome di Terapeuti” . (II Storia della Chiesa – cap. X e XVII).
A questo punto, per evitare le continue spiegazioni che saremmo costretti a fare nelle pagine che seguiranno, distingueremo i cristiani esseni dai cristiani di Santa Madre Chiesa usando il seguente sistema: chiameremo i primi con il nome di “CRISTIANI”, che gli fu dato dai pagani, e i secondi con quello di “CRISTICOLI” con il quale li chiamò nel 1700 Jean Meslier nel suo libro-testamento “Il Buon Senso”.
Praticamente seguiremo l’esempio dei tedeschi che per evitare la confusione che potrebbe sorgere nel trattare i “romani antichi” e “i romani de Roma” di oggi, chiamano i primi Römer e i secondi Römisch.

(1). Gli Ebrei avevano l’abitudine di strofinarsi il corpo con olio per uso profano essendo riservato nel suo carattere sacro soltanto ai sacerdoti, ai re e ai profeti. ( Nuovo Dizionario Biblico –Ed. Centro Biblico – 1981).

I Testi Sacri confermano.

La stessa conferma sulla natura essena dei Cristiani a cui si riferisce Plinio il Giovane che ci viene dagli autori del tempo la troviamo nei testi sacri che furono scritti nella seconda metà del I secolo, quali l’Apocalisse, la Lettera agli Ebrei, le Lettere di Giacomo, di Pietro, di Giuda, di Giovanni e gli Atti degli Apostoli nei passi che si riferiscono a questo periodo

Apocalisse. (Rivelazione).

Come prima cosa diciamo che l’Apocalisse nel suo significato di “rivelazione” non rivela assolutamente nulla. È soltanto un accrocco farneticante di minacce e maledizioni esprimenti tutto l’odio che i Giudei provavano verso Roma.
Contrariamente a quanto sostiene la Chiesa, essa non è stata affatto scritta nel 95 dall’immaginario Giovanni, discepolo di Gesù, nell’Isola di Patmos dove fantasiosamente viene collocato, quale Cristicolo, per sfuggire alle persecuzioni di Domiziano, ma bensì da due diversi autori e in anni differenti. Dei suoi 22 capitoli, 18 furono redatti dagli esseno-zeloti durante la guerra del 66-70 e precisamente nell’anno 69 (1), e quattro, i primi tre e l’ultimo, da un certo Giovanni di Cerinto (confermato da Papia, vescovo di Geropoli), detto il Presbitero, che visse alla fine del I secolo come asceta presso la comunità essena di Patmos.
Peri suoi contenutialtamente pregiudicanti l’esistenza storica di Gesù, la Chiesa, dopo averlo considerato un apocrifo, lo annoverò tra i testi canonici soltanto nel VI secolo dopo aver adattato lo spirito rivoluzionario in essa contenuto in concetti cristiani, quale il sostituire la dichiarata imminenza del regno giudaico sulle rovine di Roma con quella che sarà la vittoria di Cristo che viene procrastinata alla fine dei tempi.
L’autore dell’Apocalisse dice che ciò che lui ha scritto in questo libro gli è stato rivelato da Cristo in persona attraverso la visione di un angelo.
Delle innumerevoli prove che ci fornisce l’Apocalisse per dimostrare che i cristiani di cui parla Plinio il Giovane non erano i cristicoli seguaci di un Gesù morto nel 33, come sostiene Santa Madre Chiesa, ma i cristiani che attendevano ancora il Cristo esseno, ne citeremo soltanto alcune:
1) Il libro, dicendo nell’introduzione che le cose che vengono rivelate debbono presto accadere perché il tempo della realizzazione del Regno di Dio è vicino (2) (Ap.1-1,3), esclude nella maniera più evidente l’esistenza di un Cristo che ha compiuto la sua missione precedentemente al 95.
2) Esortando le sette chiese (capp. 2-3) a mettersi in guardia contro coloro che predicano un Cristo differente dal suo, conferma che la figura a cui si riferisce non è del Messia dei Cristicoli vissuto 60 anni prima, ma piuttosto quella di un essere celeste che, presentandosi sotto forma di visioni, ogni comunità poteva costruirsi secondo i propri interessi e convinzioni.
3) L’autore riferendosi al Messia nella forma spiritualista chiamandolo “uno simile a figlio d’uomo” (Ap.1,12) secondo la visione di Daniele che lo escludeva dall’incarnazione, dimostra di disconoscere nella maniera più assoluta l’esistenza del Cristo incarnato che la Chiesa sostiene essere stato crocifisso nel 33.
4) Il “Figlio dell’uomo” o, più precisamente, quell’uno simile a Figlio d’uomo, lontano dall’essere morto in croce, come viene ancora atteso dai rivoluzionari nel 68 quale eroe per ristabilire l’impero giudaico sulle sue rovine di Roma, altrettanto viene ancora sollecitato nel 95 a discendere dal cielo per realizzare il regno di Dio. (Ap. 22,10).
5) Nell’Apocalisse, sia nell’edizione del 68 come in quella del 95, si disconosce nella maniera più assoluta la comparsa di Gesù sulla terra; nessun riferimento al processo di Pilato, niente si dice della sua morte, dei suoi miracoli, dei suoi discepoli; nulla che confermi l’esistenza di quegli apostoli che secondo gli Atti formarono la prima comunità a Gerusalemme dopo la sua morte,

6) L’autore, facendo dire a Gesù (3) che presto scenderà da cielo (Ap.22,20), ignora nella maniera più evidente che egli è vissuto 60 anni prima. Descrivendolo essenzialmente spirituale secondo il concetto esseno espresso nella visione di Daniele e facendolo partorire dalla costellazione della Vergine agli inizi dei tempi (Ap.XI,7), nega nella forma più chiara e netta la nascita in una grotta da una donna chiamata Maria.

L’Apocalisse dice che il Messia è nato dalla Vergine Celeste (costellazione), all’inizio dei tempi. Il gragone (altra costellazione), simbolo del male, insegue la vergine incinta per uccidere il figlio che dovrà generare, ma lei si rifugia sulla terra dove partorisce il Messia che, promesso ai più alti destini, viene subito rapito in cielo ( Ap. XII,5).
Se l’Apocalisse fosse stata scritta da un Cristicolo, come avrebbe potuto costui dire che Cristo è risalito in cielo subito dopo la nascita quando la Chiesa sostiene che rimase sulla terra fino a 33 anni?
7) Il Messia nell’Apocalisse che viene presentato come un agnello che si è immolato sulla croce per la salvezza degli uomini, viene assimilato allegoricamente al montone perché possa trarre da esso, quale primo segno zodiacale, l’autorità per primeggiare su tutti gli altri. (Ap. XIII,8).

8) La croce, simbolo base della liturgia cristicola, tanto da essere usato in ogni sua manifestazione come garanzia di salvezza, è ignorata dall’autore dell’Apocalisse in quel segno che viene messo sulla fronte dei giudei perché scampino allo sterminio. ( Ap.7).


(1). Per quanto riguarda la datazione del 95 data dalla Chiesa a tutta l'Apocalisse, siamo di fronte ad un altro falso storico secondo quanto ha inconfutabilmente dimostrato Engels confermando l'uscita della prima edizione agli anni 68-69.
Ma prima di passare alla dimostrazione di Engels, è bene fare un breve riepilogo dei fatti che precedettero la sua redazione.
La morte di Nerone, avvenuta per suicidio nell'anno 68, gettò Roma in uno stato di tale anarchia e di disordine da costringere le legioni impegnate nella guerra contro i rivoluzionari a ritirarsi in Siria lasciando campo libero all'esercito esseno-zelota.
I Giudei sicuri di essere pervenuti alla vittoria finale, vedendosi già padroni dell'Impero e quindi del mondo, sfogano nel libro tutto il loro rancore contro Roma, la Babilonia della corruzione, e contro tutti i nemici di Dio annunciando un programma di odio, di vendetta e di stragi.
A Nerone succedette Galba, ma sotto il suo regno incerto della durata di sei-sette mesi compresi tra il giugno del 68 e il gennaio del 69, la situazione di disgregazione delle istituzione dello Stato peggiorò ancora per una voce che cominciò a circolare secondo la quale veniva dato per certo che Nerone, dichiarato suicida, non era morto come si credeva ma che stesse preparando un esercito per riconquistare il trono.
<<In effetti, dopo l'insediamento di Galba al trono di Roma, ben presto fece la sua comparsa un personaggio che affermava di essere Nerone e che per un certo tempo combatté per il potere ma fu sconfitto>>. (Josif Kryvelev. L'Apoalisse. 8)
Fatta questa brevissima premessa, leggiamo ora il passo dal quale Engels ha tratto la data esatta nella quale fu scritta l'Apocalisse: “L'angelo mi trasportò in spirito nel deserto (è l'autore che parla seguendo la sua visione). Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d'oro e di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d'oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: <<Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra>>. A vederla fui preso da grande stupore. Ma l'angelo mi disse: perché ti meravigli? Io ti spiegherò il mistero della donna e della bestia che la porta, con sette teste e dieci corna. La bestia che hai visto, ma che non esiste più salirà dall'abisso ma per andare in perdizione. E gli abitanti della terra stupiranno al vedere che la bestia che non era e non è più, riapparirà. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna e sono anche i sette re. I primi cinque sono caduti (Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone), ne resta ancora uno in vita (Galba), l'altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco.
Quando la bestia che era e non è più
(continua a spiegare l'angelo), il re che dovrà venire anche se figura come ottavo rimane comunque il settimo, ma va in perdizione”.
Perché il successore di Galba potrebbe apparire come ottavo anche se in realtà è il settimo? Perché Nerone, riprendendo il trono secondo quanto si diceva, appare come una doppia figura rappresentando un imperatore già annoverato tra quelli caduti.
Che la settima testa sia Nerone ce lo conferma lo stesso autore dell'Apocalisse allorché, riferendosi al suo presunto suicidio, così scrive: <<Una delle sette teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita>>. (Ap.13-3). Infatti si sparse la voce che Nerone dichiarato morto era rimasto soltanto ferito dal pugnale che aveva usato per suicidarsi.
Un ulteriore prova confermante che il settimo imperatore, cioè quello che succederà a Galba, è Nerone ci viene ancora dalla stesso autore dell'Apocalisse allorché ci dice che il suo nome corrisponde al numero 666: <<Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: esso rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei>> (Ap. 13-18).
L'interpretazione di questo numero, ricavata da Ferdinand Bernari, professore berlinese le cui lezioni furono seguite da Engels, secondo la simbologia numerica ebraica corrisponde esattamente a “Nerone Imperatore”.
Il calcolo eseguito da Ferdinand Bernari viene confermato dallo stesso Sant’Ireneo, Padre della Chiesa, che nel libro “Contro le Eresie” indica l'Imperatore Nerone con il numero 616. Perché questa differenza? Per il semplice fatto che Ireneo fece il calcolo sul testo scritto in latino dove il nome Nerone, scritto in greco con Neron, diventa Nero. Cadendo la lettera N, che nella simbologia ebraica corrisponde a 50, il conto e bello che fatto: 666-50= 616.
Dunque, se l'Apocalisse è stata scritta mentre regnava Galba, cioè nel periodo compreso tra il quinto imperatore che era stato Nerone morto suicida e il settimo imperatore, previsto nella persona dello stesso Nerone redivivo, e sapendo che Galba ha regnato dal giugno del 68 al gennaio del 69, come conseguenza l'Apocalisse non può essere stata scritta chi in questo periodo e non nel 95 come sostiene la Chiesa, e neppure essere stata redatta da Giovanni l'evangelista nell'Isola di Patmos ma dai rivoluzionari in Giudea durante la guerra del 70.
La Chiesa, per giustificare il 95 come data da lei assegnata all'Apocalisse, così commenta il passo dal quale Engels ha tratto la sua conclusione: <<Sette re, cioè gl'imperi di Augusto, Tiberio, Caligola, Nerone e Domiziano, che esisteva ancora al tempo di Giovanni. Il poco tempo è il tempo della persecuzione e il settimo impero è il dominio ostile al regno di Dio, identificato con la fiera>>. (Nota a pag 7 dell'Ap. ed. CEI).
Praticamente, pur di giustificare il 95 come anno in cui fu scritta tutta l'Apocalisse, ignorando gl'imperatori Galba, Vespasiano e Tito, la Chiesa fa un volo alla testa della bestia numero 6 di ben 25 anni per mettere
la sulle spalle di Domiziano che viene a risultare il sesto imperatore. E la settima testa? La settima testa la ottiene trasformando il redivivo Nerone in “un Impero ostile al regno di Dio” che incoerentemente viene identificato con l'intera bestia.
Perché la Chiesa insiste ad attribuire all'Apocalisse la data del 95? La risposta è semplice: se riconoscesse che è stata scritta nel 68, tutta la seconda parte riguardante Gesù, cioè i 4 capitoli aggiunti, risulterebbe troppo evidentemente un falso per l'anacronismo esistente nei concetti espressi nel “Saluto alle sette chiese”, quali quello dei Nicolaidi, che ancora non esistevano nel 68. Per cui, non potendo retrodatare l'Apocalisse del 95 al 68, l'ha posdata tutta al 95.
Ma in fondo, cosa potrebbe cambiare in ciò che riguarda l'esistenza storica di Gesù anche se l'Apocalisse fosse stata scritta tutta nel 95, dal momento che essa esclude nel suo intero e nella maniera più categorica ogni riferimento ad una sua vita terrestre?
L'Apocalisse è un'opera di guerra che ripete nella maniera più fedele il programma di sterminio di Roma esposto dagli esseno-zeloti nel “Rotolo della Guerra” ritrovato negli scavi di Qumran nel 1947. Essa ignora nella maniera più assoluta tutto ciò che è stato attribuito a Cristo. Ignora Pilato, la crocifissione, i miracoli, la resurrezione, gli apostoli. Essa, disconoscendo tutti gli altri libri sacri che si riferiscono al cristianesimo, oltre che ha dimostrare la sua natura giudeo-essena, conferma che i vangeli e la maggior parte dei fatti riportati negli Atti degli apostoli e nelle Lettere, non sono stati scritti nel primo secolo ma in date molto più tardive.

(2). Il regno di Dio dato per imminente va considerato nella sua realizzazione sotto due aspetti diversi a seconda che si riferisce all’edizione del 68 o del 95.
Nel 68 i Giudei e gli Esseni sostenevano la guerra contro Roma uniti dallo stesso Messia dalla duplice figura come ai tempi della rivolta dei Maccabei tanto da vedersi ripetere, nei passi dell’Apocalisse, le stesse scene di cooperazione tra la fanteria, rappresentata dall’esercito rivoluzionario che fa strage dei nemici, e l’aviazione rappresentata dal medesimo cavaliere celeste che vola nel cielo sopra un cavallo bianco (Ap. 19,11).
I successi militari determinati dai disordini avvenuti a Roma, in seguito alla morte di Nerone, portano i rivoluzionari ad essere così certi della loro vittoria da annunciare con tanta certezza l’imminenza del regno di Giuda da considerare come fatto avvenuto la sua realizzazione tanto da arrivare a fare una descrizione dettagliata della carneficina che subiranno i loro avversari. (19,17 – 20,7).
Secondo l’Apocalisse del 68 il compimento del regno di Dio determina la fine del mondo: dopo che i nemici di Dio, rappresentati da Roma e dai suoi alleati, saranno eliminati subentrerà il Messia celeste che giudicherà i vivi e i morti dividendoli in due resurrezioni, una prima che avviene subito (20,1) e una seconda dopo mille anni (20,11). Fra le diverse interpretazioni di questa fesseria, la più fedele è quella dei seguaci di Geova, poiché quella della Chiesa ne risulta così discordante nella sua pretesa escatologica da essere ridicola.
Nel 95, dopo la sconfitta del 70 i Giudei e gli Esseni si separano continuando nell’attesa del regno di Dio secondo i propri concetti messianici; i guerrieri affidandola all’avvento del Messia davidico (vedi Masada e la rivolta di Bar Kocheba), gli Esseni su quello spirituale che deve discendere dal cielo (vedi suppliche e preghiere sollecitanti la sua venuta riportate nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse che sono confermate storicamente da Giuseppe Flavio (passo già riportato) e, come nel nostro caso, dalla lettera di Plinio il Giovane).

(3). Il nome di Gesù che viene usato nell’Apocalisse come in tutti gli altri Testi Sacri scritti prima del 150 per indicare il Messia ha un significato di appellativo e non di nome proprio per il rispetto di quel segreto che proibiva di pronunciarlo fino al giorno che sarebbe rivelato, cioè al giudizio universale come ci viene confermato dagli stessi Testi Sacri: <<In questa attesa, il giorno della sua discesa dal cielo, il suo ruolo di Salvatore e il suo nome rimarranno segreti. È perché il suo nome fosse a tutti nascosto, che Dio lo ha creato per primo e per l’eternità. (Dal Libro di Henoch).

LETTERA AGLI EBREI.

La lettera agli Ebrei, tolte le interpolazioni che furono aggiunte dai padri della Chiesa nel terzo e quarto secolo e in maniera così maldestra da risultare addirittura ridicole, come quelle che parlano della crocifissione (6,5 – 12,2) che sono in pieno contrasto con altri passi in cui si dice che deve ancora discendere sulla terra (10,37), è da considerarsi, almeno nell’essenza di ciò che riporta, tra i testi esseni più antichi. Non parlando della distruzione del Tempio, mentre fa riferimento alle cerimonie che vi si svolgono, fa presupporre che la sua prima versione sia stata scritta prima del 70.
L’autore che l’ha scritta, come gli altri che gli succedettero, risultano ignoti. La stessa Chiesa, che fino a qualche anno addietro l’attribuiva a Paolo di Tarso, ora dichiara di non poterle attribuire una provenienza: <<La mancanza di certi caratteristici procedimenti Paolini e l’incertezza della tradizione storica ecclesiastica consentono di pensare che la Lettera agli Ebrei, senza indirizzo e intestazione d’autore, sia di altra mano. Con ogni probabilità si tratta di uno scrittore giudeo di cultura ellenista >>. (Da introduzione alla “Lettera agli Ebrei” riportata nella Bibbia ediz. CEI ).
Comunque, indipendentemente da chiunque l’avesse scritta, la sua natura prettamente essena, che la stessa Chiesa conferma asserendo che è stata scritta da un Giudeo di cultura ellenista, esclude l’avvenuta incarnazione del Messia; come l’Apocalisse ignora nella maniera più assoluta tutto ciò viene riferito ad una vita terrena di Cristo; nulla dice della sua Natività, nulla della sua Passione, Morte e Resurrezione; nessuna menzione di Pilato, del suo processo e di quei miracoli mirabolanti che, secondo la Chiesa, erano stati operati soltanto qualche anno prima.
Uno degli autori che si aggiunsero alla prima edizione di questa lettera, sicuramente un seguace esseno della filsofia neoplatonica sviluppatasi in Alessandria alla fine del primo secolo, seguendo i concetti gnostici, riferendosi al Messia, dice che è stato generato nelle sue apparenze umane direttamente da Dio il giorno in cui è disceso sulla terra, per cui lo dichiara simile a Melchisedec che, privo di genealogia, non aveva né padre né madre. Gli attribuisce una crocifissione prettamente simbolica come quella che Marcione riporterà nel 140 sul suo vangelo gnostico attribuendola agli Arconti (spiriti del male).
La lettera agli Ebrei, affermando che il Cristo dovette assumere le apparenze umane (rendersi simile ai fratelli- 2,17) per diventare il Sommo Sacerdote e riportando ripetutamente (3,10- 3,18- 4,3) quel versetto tratto dai Salmi (94,10) che fu alla base per la costruzione del Salvatore gnostico: <Per quarant’anni rimasi disgustato di quella generazione e dissi, sono un popolo dal cuore traviato, perciò ho giurato nel mio sdegno. Non entreranno nel luogo del mio riposo >>, esclude nella maniera più assoluta l’esistenza di cristicoli nella prima metà del II secolo.



Lettera di Giacomo.

Questa Lettera, scritta da un esseno molto probabilmente capo di una comunità del Medio oriente per la forma catechistica che usa e le esortazioni a seguire la via della virtù, annunciando prossima la venuta del Messia, nega che ci sia stato un Cristo che ha svolto la sua missione sulla terra; negazione che conferma, come l’Apocalisse e la Lettera agli Ebrei, che i cristiani di cui parla Plinio il G. non potevano essere Cristicoli ma esseni seguaci di un Messia-Christos che doveva ancora venire.
La sua natura essena viene confermata dalla raccomandazione di non proferire i giuramenti che erano proibiti dal Pentateuco e dall’incitamento a non risparmiarsi nell’uso dell’olio sia per ottenere le guarigioni fisiche che la remissione dei peccati, quell’uso d’olio che portò i pagani ad affibbiare agli esseni l’epiteto di “Cristiani” nel significato di sporchi, unti e bisunti come cotiche.

Lettere di Pietro.

Le lettere di Pietro, parlando soltanto della crocifissione di Cristo e non della sua nascita, dimostrano di essere state scritte tra la fine del II secolo e la metà del quarto, cioè in quel lasso di tempo che intercorse tra l’inizio del cristianesimo che faceva discendere Gesù sulla terra all’età di trenta anni e la decisione che presero i padri della Chiesa, quale Epifanio, di dargli una nascita terrena. Quindi tardive come i Vangeli, non possono avere altro valore che quello di confermare come i Tesi Sacri siano il prodotto di imbrogli, falsificazioni e imposture.
Il solo fatto che la Chiesa dica che sono state scritte a Roma tra il 62 e il 64 da Pietro, quando sappiamo storicamente che costui non è mai andato a Roma perché ucciso a Gerusalemme quale rivoluzionario zelota nel 44 sotto Cuspio Fado (1), ci dimostra che sono dei falsi sia nella data che nel nome dell’autore.

(1). <<Sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro, Giacomo e Simone (Pietro), figli di Giuda il Galileo, furono sottoposti a processo e crocifissi; questi era il Giuda che, come ho spiegato sopra, aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani mentre Quirino faceva il censimento in Giudea>>. (Gius. Fl. Ant. Giud. XX-122).

Lettera di Giuda.

La lettera di Giuda mettendo in guardia la propria comunità contro i “falsi dottori”, cioè contro quei predicatori che sostenevano un Cristo differente dal suo, è certamente di origine essena come l’Apocalisse nel capitolo 2 che si riferisce alle sette chiese e quei passi attribuiti a Paolo di Tarso nei quali si parla dei diversi Cristi che ciascuno poteva sostenere secondo le proprie convinzioni portando come unica prova quelle visioni che in questa lettera sono esplicitamente dichiarati “sogni” ( Gd.8 ).
Per l’evidente essenismo che dimostra può essere considerata autentica salvo qualche piccolo ritocco quale quello in cui il Messia viene chiamato “Gesù Cristo” con l’evidente intenzione di dare al termine “Gesù”, che presso gli Esseni era un appellativo, un significato di nome proprio.
Chi sia l’autore di questa lettera non si sa. La Chiesa per renderla un documento cristicolo l’ha attribuita a un discepolo di Gesù a cui i cotrutori del vangeli dettero il nome di Giuda. Ma quale dei due Giuda? Ed è proprio dalla difficoltà di specificare quale, se il Giuda fratello di Gesù (Mt. 13,55) o il Giuda Taddeo figlio di Giacomo (Lc. 6,16- At.1,13), che in realtà erano la stessa persona, che ci viene la conferma delle manipolazioni operate dalla Chiesa per trasformare una banda di Boanerghes in una squadra di discepoli.
Il Giuda Taddeo e il Giuda fratello di Gesù che la Chiesa ci presenta con tanta confusione non sono che lo sdoppiamento di Giuda detto Taddeo, figlio di Giuda il Galileo, che fu decapitato nel 45 da Cuspio Fado sotto l’accusa di rivoluzionario (1).
La Chiesa stabilisce la data di questa lettera tra il 64 e il 66 secondo questo ragionamento: <<Poiché essa riporta in parte la lettera che Pietro scrisse nel 64, di conseguenza è stata scritta dopo questa data>>.
Ma per quanto il ragionamento possa apparire logico per ciò che riguarda la derivazione delle date, quello che appare assurdo è come possano costoro aver scritto queste lettere nel 64 e nel 66 se sono morti, come risulta dai documenti storici venti anni prima, giuda nel 45 e Pietro nel 44 ? (2).
Un assurdo che ancora una volta viene affidato alla fede, quella virtù teologale che risolve tutti i problemi ricorrendo al mistero e ai miracoli, quale quello di far risuscitare persino i morti come risulta da infiniti casi dei quali, tanto per farci una risata sopra, ne voglio ricordare due, quello dei vangeli canonici (325) e quello di San Stanislao (1030-1070).
Il primo: Lo storico Verati di Lisimago, dopo aver spiegato nella sua opera come avvenne la scelta dei 4 vangeli canonici (3), avvenimento confermato da Niceforo Gregoras -1269-1360- e da Baronio Cesare -1538-1607, dice che in fondo al documento conclusivo del Concilio si legge: <<Essendo morti due dei padri conciliari Crisanto e Musonio, quando tutti gli altri avevano firmato gli atti, dietro devota orazione dei padri del Concilio resuscitarono, vi apposero le loro firme, e dopo aver sbrigato quell’affare urgente, si affrettarono a rimorire>>.
Il secondo: Il sacerdote Giovanni Ribaldo, nella sua opera “Tutto San Matteo”, ci assicura che San Stanislao (1030-1070) fece resuscitare un certo Pietro, morto tre anni prima, affinché venisse in tribunale a deporre a suo favore perché accusato ingiustamente. Pietro si presentò in tribunale e dopo aver testimoniato ritornò a distendersi nel suo sepolcro.

(1). << Durante il periodo in cui Cuspio fado era procuratore della Giudea, un certo sobillatore di nome Teuda persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie distanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione ingannò molti. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro pazzia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme>>. (Anti. Giud. XX- 97).

(2) <<Giacomo e Simone (Pietro), figli di Giuda il Galileo, furono posti sotto processo e per ordine di Alessandro vennero crocifissi; questi era il Giuda che –come ho spiegato sopra- aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirino faceva il censimento in Giudea>>.
(Gius. Fl. Ant. Giud. Libro XX- cap.V ,2).

(3 Nel III e IV secolo, in seguito alla libertà d’opinione che aveva permesso a tutti di raccontare la favola di Gesù secondo le proprie convinzioni, esistevano, tra lettere, detti e vangeli oltre 60 libri. La Chiesa, costretta ad eliminare quelli che non le confacevano, fece prevalere su tutti gli altri i quattro vangeli canonici ricorrendo al giudizio divino: alla presenza di Costantino, che presiedeva il concilio di Nicea (325), dopo aver collocato alla rinfusa su un altare tutti i libricini circolanti, i padri conciliari pregarono con fervore lo Spirito Santo affinché indicasse, attraverso un segno, quali dovevano essere scartati e quali conservati. Quando ritornarono il giorno dopo trovarono tutti i vangeli per terra meno i quattro che sono diventati i vangeli della Chiesa.
Quando chiesero a Esusebio perché lo Spirito Santo ne aveva scelti quattro quando tre, i sinottici, erano praticamente uguali, egli rispose: <<Perché 4 sono i punti cardinali e 4 sono i volti dei Cherubini>>.

Lettere di Giovanni.

La chiesa le attribuisce al discepolo Giovanni autore dell’Apocalisse, ma essendo i due scritti completamente opposti tra loro, oltre che nella forma, soprattutto nei significati, sono l’evidente costruzione di un falso. Riportando gli stessi concetti del IV vangelo, che fu scritto nel 180, non possono essere che dei falsi scritti dopo questa data.
La conferma che queste lettere sono posteriori al 180 ci viene inoltre dal riferimento che fa a coloro che negavano (vedi Celso) che colui al quale era stato dato il nome di Gesù non era il Cristo preconizzato dai Testi sacri. (I Gv. 2,22. –IIGv.7).
Nella III lettera viene nominato un certo Diotrefe del quale Giovanni si lamenta perché quando va a parlagli del suo Cristo gli chiude la porta in faccia. Alla Chiesa che non sa spiegare chi fosse costui glielo diciamo noi che Diofrete è il precursore di quanti, oggi, sempre più numerosi, stanno mandando a quel paese i suoi rappresentanti via via che imparano a conoscerli per quegli imbroglioni e truffatori che sono.

Paolo di Tarso

Alla domanda che mi si potrebbe fare a questo punto su come io possa negare l’esistenza dei cristiani nel primo secolo quando ho riconosciuto l’esistenza di Paolo di Tarso che è considerato il massimo sostenitore e divulgatore del cristianesimo, rispondo che sarà proprio da lui che trarrò un’ulteriore prova per dimostrare che i cristiani di Plinio il Giovane non erano i cristicoli di Santa madre Chiesa ma esseni seguaci del Cristo filoniano.
Chi era Paolo di Tarso? A parte il fatto che molto probabilmente non sia neppure esistito dal momento che il primo a parlare di lui fu un certo Marcione, filosofo esseno di Sinopoli (Mar nero) seguace dell’ideologia gnostica, allorché nel 144 portò le sue lettere alla comunità essena di Roma, quello che ci risulta di lui dai documenti è che il personaggio che lui rappresenta è da escludersi nella maniera più decisa che sia stato un cristicolo.
Paolo di Tarso, chiunque fosse stato o si chiamasse, rappresenta la classica figura dell’attivista esseno che predicando un Cristo conosciuto soltanto attraverso una voce, nega nella maniera più evidente di essere un sostenitore di un Messia che si era incarnato.
Per quanto si è cercato di nascondere la verità con falsificazioni, interpolazioni, aggiunte e cancellazioni, gli Atti degli Apostoli ci confermano nella maniera più inconfutabile che Paolo di Tarso e la comunità di Gerusalemme erano Esseni.
Basta confrontare i passi degli Atti degli apostoli che fanno riferimento alla vita sociale della comunità con ciò che scrivono sugli Esseni Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio per averne la conferma.
Atti degli Apostoli: <<Erano assidui nell'ascoltare gl'insegnamenti degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno >>. (At.2,42) e ancora più avanti: <<La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede avevano un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune, nessuno infatti era tra loro bisognoso, perché quanti possedevano campi o case le vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il loro bisogno>>. (At. 4,32).
Filone Alessandrino: << Gli Esseni hanno un'unica cassa per tutti e le spese sono in comune... Tutto ciò che ricevono come salario giornaliero non lo conservano in proprio, ma lo depongono in un fondo comune affinché sia usato a beneficio di tutti coloro che vogliono servirsene>>. (Da ogni uomo onesto è libero).
Giuseppe Flavio: <<Presso gli Esseni è ammirevole la loro vita comunitaria. Invano si cercherebbe tra di loro qualcuno che possegga più degli altri. C'è infatti una legge che impone a quelli che entrano di cedere il patrimonio alla corporazione in maniera che in nessuno di essi possa apparire l'umiliazione della miseria o l'alterigia della ricchezza, ma un'uguaglianza che li renda fratelli>>. (Guerra Giudaica- 57,62).
Praticamente, stando a quello che dicono Giuseppe Flavio e Filone sulla vita degli Esseni, per poter accettare la presenza dei cristicoli nel primo secolo si dovrebbe ammettere che esistevano a Gerusalemme due sette che praticavano contemporaneamente le stesse regole religiose e sociali e, per di più, senza conoscersi far di loro.
Un assurdo insostenibile che ci porta a concludere che se c’era l’una non poteva esserci l’altra. Poiché l’esistenza di quella essena è straprovata e straconfermata da una vasta documentazione, mentre dell'altra non esiste storicamente nulla, non c’è bisogno di fare un commento per stabilire quale delle due deve essere accettata e quale respinta.
Un’altra prova confermante la natura essena di questa comunità ci viene dai pasti in comune che prendevano spezzando il pane, secondo quanto viene riportato dagli Atti degli Apostoli. Gli esseni, che avevano ripreso tutto dai Culti dei Misteri, ripetevano fedelmente tutti i lori riti meno che il banchetto eucaristico che, comportando la fagocitazione della divinità, essi si limitavano ad eseguire soltanto sotto forma imitativa come risulta dal loro libro delle regole: <<In ogni luogo in cui ci saranno dieci uomini del consiglio delle comunità, tra di essi non mancherà un sacerdote: sederanno davanti a lui ognuno secondo il proprio grado e così sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché si disporranno a tavola per mangiare o bere il vino dolce il sacerdote stenderà la sua mano per benedire il pane e il vino dolce. Il Messia d'Israele stenderà le sue mani sul pane e saranno benedetti tutti quelli dell'assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. In conformità a questo statuto essi si comporteranno in ogni refezione, allorché converranno insieme almeno dieci uomini>>. (Dai Rotoli di Qumran: “Regola della Comunità Essena”).
Associando una certa “ultima cena” a quanto viene riportato dal “Libro delle Regole”, cos’altro si può concludere se non che i suoi componenti erano una squadra di esseni zeloti? (vedi “Favola di Cristo”, Cap. 12 ).
Fatte queste considerazioni generiche, passiamo ad esaminare i casi specifici che ci attesteranno nella maniera più indiscutibile come la comunità di Gerusalemme, che la Chiesa pone come base del suo primo Cristianesimo, fosse composta da Cristiani esseni e non da Cristicoli.
Cominciamo con quella carica religioso-politica del “nazireato” che, rinsaldata nella rivolta dei Maccabei (I Mc. 3-48), la ritroviamo confermata nella comunità di Gerusalemme dagli Atti degli Apostoli e in quelle della Bitinia e del Ponto dalla lettera di Plinio il Giovane allorché fa riferimento a due ancelle alle quali era stato concesso l’incarico di ministre per quella legge mosaica che permetteva di essere Nazir anche alle donne. (Nm.6,1).
I Nazir erano una casta parasacerdotale che aveva il compito di svolgere mansioni religiose, sociali e politiche: religiose per ciò che riguardava l’assistenza ai sacerdoti nella celebrazione dei riti, sociali, nella protezione dei vecchi, dei bambini e di chiunque avesse avuto bisogno di soccorso, politica nella divulgazione dell’ideologia essena.
Il nazireato, rinvigoritosi durante la rivolta dei Maccabei, in seguito all’incremento che ebbe nel durante l’era messianica, proseguì nel mondo religioso esseno dopo il 70 presso le varie comunità del Medio oriente, quali quelle degli Ebioniti, Battisti, Nazorei e Mandei.
La legge imponeva ai Nazorei di non bere vino, bevande fermentate o qualunque altro prodotto della vigna e di lasciare intonsi i capelli che potevano essere tagliati soltanto alla fine del voto Al termine del voto, che durava normalmente un anno, colui che l’aveva fatto si presentava al sacerdote, offriva i sacrifici prescritti, si radeva la capigliatura e la bruciava. Da quel momento poteva bere il vino pur continuando ad esercitare l’incarico di Nazir” (1).
Negli Atti degli Apostoli innumerevoli sono le citazioni che ci confermano della presenza di Nazir nella comunità di Gerusalemme e con particolare riferimento a Paolo di Tarso: “Si rivolsero a Paolo e gli dissero: <<Fa dunque quanto ti diciamo: vi sono fra noi quattro uomini che hanno un voto da sciogliere: prendili con te, compi la purificazione insieme con loro e paga la spesa per loro perché possano radersi il capo>>”. (AT. 21,23).
E come era essena la comunità di Gerusalemme lo erano anche quelle egiziane e siriane dal momento che fu presso di esse che Paolo assunse la qualifica di Nazir: << A Cencre, Paolo si fece tagliare i capelli per un voto che aveva fatto>>. (At. 18,18).
La presenza, poi, di una diaconessa a Cencre che svolgeva funzioni di Nazir, ricordata dallo stesso Paolo di Tarso nella lettera ai Romani, oltre che a dimostrare la natura essena di questa comunità, ci conferma come lo erano altrettanto quelle della Bitinia e del Ponto per le due ministre di cui ci parla Plinio il Giovane nella lettera a Traiano.
<<Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa (ministra) della Comunità di Cencre: ricevetela nel Signore; essa infatti ha protetto molti e anche me stesso>>. (Rom. 16,1).
Che Paolo sia un Nazir, e quindi un essendo, ci viene ulteriormente testimoniato nella forma più inequivocabile da un altro passo degli Atti degli Apostoli nel quale un avvocato, di nome Tertullo, lo accusa con queste parole davanti al Sommo Sacerdote Anania: <<Abbiamo scoperto che quest'uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra i Giudei ed è capo della setta dei Nazirei>>. (At. 24,5).
E altre prove ancora, qualora queste non bastassero per le facce di bronzo che dovessero ancora insistere a sostenere il contrario, che ci attestano che Paolo e compagni, quali Pietro e Giacomo appartenenti alla comunità di Gerusalemme, erano tutti degli esseni e, per giunta, tra i più zelanti e rivoluzionari, ci viene da altre considerazioni:
A) L'imperatore Claudio espulse nel 51 da Roma i Giudei che erano causa di continui disordini (Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica- e Svetonio in Vita dei Dodici Cesari): Paolo nei suoi giri di predicazioni trova alloggio, secondo le regole dell'ospitalità delle comunità essene (vedi Filone nel passo sopra riportato), presso una coppia di quei giudei rivoluzionari espulsi da Roma nel 51 che per i continui disordini che vi provocavano e, guarda il caso, erano proprio provenienti dal Ponto: <<Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano della stesso mestiere, si stabilì nella loro casa. Erano infatti fabbricatori di tende>>. (At. 18,1).
Questo passo degli Atti degli Apostoli dicendoci che tra i Giudei che furono cacciati da Roma, perché causa di disordini, ce n’erano anche di origine del Ponto, non solo è una testimonianza dell’essenismo di Paolo di Tarso che trova ospitalità presso dei rivoluzionari, ma è anche, e soprattutto, una conferma che i cristiani a cui si riferisce Plinio, quale governatore della Bitinia e del Ponto, erano Esseni e non Cristicoli.
B) Gli esseni avversavano ogni figura di divinità eseguita da mano d'uomo per quella legge che Mosè ricevette da Dio: <<Guardatevi di non fare alcuna immagine scolpita di qualunque cosa, riguardo alla quale il Signore Dio tuo ti ha dato comando. Guardatevi da divinità fatte da mano d'uomo, dei di legno e di pietra>>, e Paolo, quale attivista esseno, s’impegna a distruggere tutte le immagini delle divinità pagane, esposte per la vendita, con tanto “zelo” da provocare nella città di Efeso e in tutta l'Asia dei continui tumulti da parte degli artigiani che vivevano di questo commercio(2). (At. 19,23).
C) Pietro, capo della comunità di Gerusalemme, quale perfetto esseno osservante delle leggi degli antichi padri che proibivano di mangiare carni di animali immondi, a Dio che lo tenta offrendogli come cibo su una grande tovaglia calata dal cielo (!?!) ogni sorta di quadrupedi, rettili e uccelli, risponde con decisione: <<No, Signore, io non mangerò mai nulla di profano e d'immondo>>. (At.9, 11).
D) Nella Legge di Mosè c'è scritto: <<Nessuno tra voi mangerà sangue, neppure lo straniero che soggiorna mangerà sangue di nessuna specie di essere vivente perché il sangue è la vita, né carne di bestia morta naturalmente o soffocata>> (Lv. 12,14) e i seguaci della comunità di Gerusalemme confermano il loro giudeo-essenismo imponendo ai convertiti pagani di rispettare questa prescrizione: <<Quanto ai pagani che sono venuti alla nostra fede, noi abbiamo deciso che si astengano dal sangue e da ogni animale morto naturalmente o soffocato>>. (At. 15,19).
Come può, quindi la Chiesa, sostenere che questi componenti la comunità di Gerusalemme che si astengono da ogni contatto con il sangue potessero essere dei Cristicoli quando questi non avrebbero mai potuto praticare l’Eucaristia che è un sacramento basato sull’ingestione di sangue e, per di più, sangue del loro Dio? Un assurdo che possono sostenere soltanto degli spocchiosi convinti che gli altri siano degli imbecilli!
E) I seguaci delle comunità frequentate da Paolo sono essene, a loro si rivolge annunciando prossima la fine del mondo. (I Cr. 7,9 –I Cr. 10,11 ).
F)Il discorso fatto da Stefano prima di essere ucciso, non è un panegirico delle leggi mosaiche confermante che egli era uno di quei martiri esseni che affrontavano la morte pur di non mangiare carne di porco e riconoscere l’autorità degli Imperatori attraverso la loro effigie? (At.7, 1 e egg.).
G) Per avere un’altra indiscutibile prova dell’essenismo di Paolo e delle comunità che frequentava in Medio Oriente, tra le quali quelle della Bitinia e del Ponto, basta confrontare un suo discorso fatto a Corinto con ciò che Giuseppe Flavio dice degli Esseni riguardo il matrimonio:
Giuseppe Flavio: <<Gli Esseni, ebrei di nascita, per se stessi sdegnano il matrimonio, ma adottano i figli altrui mentre sono ancora arrendevoli ai loro ammaestramenti. Li considerano come parenti e li modellano secondo i loro costumi.
<<Esiste però un altro gruppo di Esseni che per genere di vita, per abitudine e per legislazione sono favorevoli al matrimonio. Ritengono infatti che coloro che non si sposano recidano una parte importantissima della vita, e cioè la propagazione della specie, tanto che se tutti adottassero la stessa opinione favorevole al celibato ben presto scomparirebbe il genere umano>>. (Guerra Giud. Cap. IV. Pag. 57).
Paolo di Tarso: << Anche se è cosa buona per l’uomo non toccare donna, se non riuscite a resistere ai pericoli dell’incontinenza, allora sposatevi. Fate sesso ma sempre di comune accordo e temporaneamente per dedicarvi alla preghiera. Vorrei che tutti voi conduciate una vita casta come me, ma non tutti hanno il dono dell’impotenza. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona che rimangano come sono io, ma se non sanno vivere senza sesso, allora si sposino pure; è meglio sposarsi che ardere (bruciare nell’inferno) >>. (I Cr. 7).
Se ci fosse ancora rimasto qualche faccia di bronzo tra quelle che poco prima ho nominato a cui non bastassero ancora queste prove per riconoscere che Paolo di Tarso era un esseno e, come lui, erano esseni e non cristicoli coloro che lui frequentava, quali quelli della Bitinia e del Ponto dei quali ci parla Plinio il Giovane, ne porteremo ancora un’altra che da sola già basterebbe per eliminare ogni discussione.
L’argomento si riferisce alla famosa conversione di Paolo di Tarso che avvenne sulla strada di Damasco in seguito alla quale, rimasto cieco per l’intesa luce della visione, fu condotto a mano a Damasco dove rimase per tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevande (3). ( At.cap. 9).
Dopo aver ricevuto la visione di quel Messia che Filone aveva trasformato in parola (Logos”), gli Atti degli Apostoli c’informano che Paolo di Tarso fu ricoverato nella casa di Giuda: <<C'era a Damasco un discepolo di nome Anania. Il Signore (è sempre il Logos che ormai vedono tutti) in una visione disse ad Anania: va sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo di Tarso; imponi su di lui le tue mani perché recuperi la vista. Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e improvvisamente Paolo riacquistò la vista e fu subito battezzato>>.(At. IX, 11).
A questo punto, facendo l’analisi del passo, non solo avremo un’altra prova confermante che Paolo di Tarso era un esseno, ma anche la dimostrazione delle manipolazioni che fecero i falsari per trasformare in cristicoli i seguaci delle comunità essene.
Dal Quaderno del Circolo Renan 4° trimestre del 1936 – A. Ragot. “Paolo di Tarso”.
<<Dopo aver perso la vista sulla strada di Damasco, Paolo va a rifugiarsi nella “casa di Giuda”, la quale si trova in una strada chiamata “Diritta”. In apparenza, questa casa potrebbe sembrare quella di un uomo che si chiamava Giuda. Ma noi ora sappiamo, attraverso i commentari di Habacuc, che l'espressione “casa di Giuda” designava la comunità essena di Damasco. Il rapporto esistente tra Paolo e la comunità essena che viene espresso dal passo degli Atti, non può essere che un'ulteriore conferma della natura essena di Paolo.
<<In questo luogo Paolo riceve l'imposizione delle mani da un uomo dichiarato discepolo. Discepolo di chi? Non ci viene detto, ma più avanti nel passo XXII, 1 degli Atti degli Apostoli, ci viene spiegato che si tratta di un “giudeo osservante della legge, altamente stimato da tutti i giudei colà residenti”. Dunque se è un giudeo non è un cristiano (cristicolo). Cosa può dunque essere questo giudeo osservante della legge, che riceve una visione del Signore, se non un capo di una comunità essena?.
<< Anania battezza Paolo. Chi poteva battezzare a Damasco, luogo dove si svolgono i fatti, dal momento che il battesimo era ancora sconosciuto anche presso la comunità di Gerusalemme e per giunta ancora nessuno era stato qualificato per eseguire un battesimo cristiano, se non un esponente degli esseni presso i quali esisteva il battesimo già da lungo tempo prima?
<<Anania dice ancora: “Il dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto”. (At. XX,14). Chi altri può essere questo Giusto se non il Maestro di Giustizia degli Esseni? Il Giusto per eccellenza?>>.
<<È molto interessante studiare le lettere di Paolo per cercarvi tutte le idee o formule che possono essere riferite all'essenismo ed essere interpretate secondo la dottrina e la pratica essena. Il nome di Belial, dato a Satana, è usato nei manoscritti di Qumran. Paolo parla della “comunità dei Santi” e degli “eletti dalla grazia”, che sono concetti esseni. Egli predica la castità e la continenza (ICor.7), virtù essene, e come gli esseni condanna la fornicazione (I Cor. V,4 - VI,8). Egli predica una morale essena (Rom. XII).ecc.>>.
<<Chiunque fosse stato l'autore, l'interpolatore, qualsiasi fosse stato il periodo nel quale furono compilati i testi attribuiti a Paolo, tutto ciò che è in essi è scritto si può rapportare agli Esseni e al loro Maestro di Giustizia>>.
Una volta dimostrato che Paolo di Tarso era un Nazir e che le comunità che frequentava lo erano altrettanto, come si può pretendere che i cristiani di cui parlano gli autori dell’epoca, compresi quelli di Plinio il Giovane, siano i Cristicoli di Santa Madre Chiesa dei quali, oltre tutto nessuno ne parla?
Ma conoscendo la forza della fede, quella fede che permette di camminare sulle acque, sono certo che innumerevoli saranno ancora coloro che continueranno a portare la lettera di Plinio come prova dell’esistenza di Cristo, almeno che l’esempio di un certo Rev. pastore pentecostita non li faccia ricredere convincendoli di quanto essa sia la logica degli esaltati e degli imbecilli:
Gabon: un pastore annega volendo imitare Gesù.
Libreville - Un giovane prete di una setta religiosa chiamata “Chiesa del Risveglio” (pentecostista) è annegato lunedì su una spiaggia di Libreville volendo camminare sulle acque per imitare il Gesù-Cristo della Bibbia.
Secondo il quotidiano governamentale L’Unione, che riporta la notizia, il prete di origine camerunese, seguendo una rivelazione, si è accinto ad attraversare l’estuario di Komo, che separa Libreville da Punta Denis, camminando sulle sue acque. Appena messi i piedi sulle onde, il servitore di Dio è subito colato a picco in presenza del fotografo e dei fedeli che aveva preso come testimoni del miracolo.
Le Chiese pentecostite, spesso d’ispirazione americana, si sono moltiplicate nel Gabon a partire dagli anni 90 raggruppando circa 120.000 fedeli. I pastori garantiscono ai loro seguaci che è soltanto attraverso la fede che possono ottenere non solo i benefici spirituali ma anche quelli relativi alla professione, all’amore e alla ricchezza. Pretendono inoltre di poter compiere, sempre attraverso la fede, ogni sorta di miracoli e di guarire tutte malattie, dal semplice raffreddore all’AIDS.
(1) Il motivo per cui i Nazirei si astenevano dall’uso del vino e di qualunque altro prodotto fermentato va ricercato nell’antitesi che gli ebrei, quali pastori per tradizione, ponevano tra il lavoro sedentario e la vita nomade. Il primo, rappresentato simbolicamente dall’agricoltura, con l’obbligo che imponeva un lavoro quotidiano allontanava l’uomo da Dio, mentre la vita nomade, predisponendo alla preghiera e all’ascetismo, lo favoriva nella sua ricerca.
Fu su questo contrasto ideologico che gli Ebrei giustificarono quei continui scontri che sostennero contro le popolazioni autoctone in seguito alla loro invasione della Palestina che noi ritroviamo simboleggiate nell’inimicizia tra Abele, il pastore, e Caino l’agricoltore.
Un concetto ideologico che si manifesta in tutta la sua ipocrisia in quel “non toccate Caino” che Dio pronunciò per preservarlo dalla condanna a morte che gli sarebbe spettata quale omicida di suo fratello. Se avessero ucciso Caino, cioè eliminato la classe lavoratrice che lui rappresentava, gli sarebbero venuti a mancare i suoi prodotti, quei prodotti di cui lo derubavano per il proprio sostentamento.
L’ascetismo era in realtà il pretesto per difendere una vita di parassitismo a cui erano abituati come lo dimostrano quei quarant’anni passati nel deserto aspettando il nutrimento da una manna che veniva dal cielo, manna che in realtà non poteva essere altro che il ricavato dei loro furti.

(2) Chissà cosa avrebbe detto Paolo di Tarso se avesse saputo di diventare la colonna portante di una religione che avrebbe fatto delle immagini e delle statuette un commercio miliardario!


Risposta di Traiano alla lettera di Plinio.

<<Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi>>. (Epist. X –97).
Come si nota, Traiano conferma in tutto quella che era la politica romana nel rispetto verso le religioni. Approvando il perdono a coloro che si dichiarano pentiti e dicendo a Plinio di non tenere in considerazione le lettere anonime, esclude, nella forma più evidente, l’esistenza di quelle persecuzioni che la Chiesa sostiene essere state applicate contro i seguaci di una religione che, oltre tutto, non poteva essere la sua dal momento che all’epoca dei fatti riportati neppure esisteva.
Traiano, come tutti gl’imperatori romani, intendeva punire soltanto coloro che si rendevano colpevoli di reati contro le istituzioni dello Stato, quale quello di lesa maestà che veniva commesso dagli Esseni allorché si rifiutavano di onorare l’immagine imperiale per l’imposizione che gli veniva dal primo comandamento di riconoscere soltanto Dio come loro padrone.
Se Traiano avesse voluto combattere l’ideologia religiosa avrebbe incoraggiato le calunnie, quale mezzo tra i più efficaci, per soffocare ogni sentimento fideista come in seguito ha fatto la Chiesa, durante l’inquisizione, che per reprimere con il terrore le credenze altrui è arrivata a costruire lettere anonime e delatori.

Conclusione.

A questo punto, è doveroso ringraziare Plinio il Giovane per avermi dato la possibilità di far recitare alla Chiesa e a Don Enrico Righi, che spavaldamente hanno voluto sfidarmi a sbugiardare la testimonianza sull’esistenza di Cristo che essi traggono dalla sua lettera, la parte di quei pifferi di montagna che andarono per suonare e rimasero suonati… e non finisce qui, perché ci sono ancora da confutare tutti quegli altri testimoni che fanno parte della sfida, quali Svetonio, Trifone, Adriano, Marco Aurelio, Epitteto e Pubblio Lentulo che, se io fossi stato in loro, avrei evitato di nominare sapendo che da essi non potranno ricevere che dell’altro ridicolo e dell’altra compassione.

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Tacito

Il passo riportato sugli “Annali” che la Chiesa cita come una delle maggiori prove dimostranti l’esistenza storica di Gesù è il seguente: <<Tuttavia, non i rimedi escogitati, né la generosità del principe (Nerone), né le cerimonie religiose per propiziarsi gli dei potevano soffocare l’infame diceria che l’incendio fosse stato ordinato. Nerone allora, per troncare quelle voci, fece passare per colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti coloro che il volgo chiamava Cristiani e odiava per le loro azioni nefande. Cristo, il fondatore della setta dal quale avevano preso il nome, era stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato sotto il regno di Tiberio. Ma la rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo non solo per la Giudea, luogo d’origine del male, ma anche per Roma, dove confluivano e trovavano seguito tutte le atrocità e le vergogne del mondo. Dapprima pertanto si processarono coloro che erano confessi: poi, in base alle loro denunzie, moltissimi vennero convinti non tanto di avere appiccato il fuoco, quanto di odiare il genere umano. I condannati a morte furono anche oggetto della scherno più atroce. Alcuni, coperti con pelli di fiere, erano dilaniati dal morso dei cani; altri crocifissi o arsi vivi, per rischiarare come fiaccole la notte, dopo il tramonto del sole. Per un tale spettacolo Nerone aveva offerto i suoi giardini e dava giochi al Circo, mischiandosi alla folla in costume d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò costoro, sebbene colpevoli e meritevoli dei castighi più gravi, suscitavano pietà, come gente sacrificata non al pubblico bene, ma alla crudeltà di uno solo>>. (Ann. capitolo XV- XLIV).

Sin da una prima lettura dei capitoli riguardanti l’incendio si rimarcano subito delle incoerenze che ci portano a sospettare l’intromissione di una seconda mano nella stesura originale di Tacito, prima fra queste quella riguardante la descrizione di un Nerone la cui figura ci viene presentata sotto due aspetti completamente contrastanti, quella di un pazzo criminale che cinicamente canta sullo sterminio di Roma e quella di un imperatore che, dopo aver sostenuto il popolo nella maniera più premurosa e paterna, si dedica alla ricostruzione della città con il massimo della solerzia e assennatezza: <<Nerone che si trovava ad Anzio quando scoppiò l’incendio, per soccorrere il popolo atterrito, ritornato a Roma, aprì il Campo di Marte, i monumenti di Agrippa e perfino i suoi giardini. Fece innalzare costruzioni improvvisate per dare ricovero alla gente mancante di tutto: da Ostia fece venire le cose più necessarie e ridusse a tre sesterzi il prezzo del frumento... eseguì la ricostruzione di Roma, alla quale partecipò in parte a sue spese, con tanta saggezza e sollecitudine come mai era stato fatto dagli altri imperatori sotto i quali erano scoppiati gl’incendi precedenti.>> (cap.XLIII).
Due figure così opposte quelle che risultano di Nerone nei capitoli riguardanti l’incendio da portarci istintivamente a chiederci se non siano il prodotto di due penne differenti, quella realista e obbiettiva di uno storico come Tacito che coerentemente riconferma un imperatore che ama il suo popolo e la sua città come nei capitoli precedenti lo aveva già presentato, e quella di un qualcuno che si è prefisso lo scopo di farlo passare per un cinico criminale per poter rendere credibile una persecuzione che soltanto un atto di pazzia avrebbe potuto giustificare.
Che i capitoli riguardanti l’incendio abbiano subito una manomissione ci viene inoltre confermato, oltre che dalle incoerenze che si trovano nei fatti riportati, anche dalla forma letteraria usata per esporli, una forma tortuosa e cincischiante così differente da quella schematica e concisa caratteristica di Tacito da far dire a Las Vergnas, uno dei maggiori esegeti del secolo scorso: <<Non possiamo provare che della perplessità su come Tacito, dallo stile rapido e folgorante, possa tanto sonnecchiare ed invischiarsi sul racconto di questo incendio>>.


Riepilogo storico.

Fatta questa premessa di carattere generale per esprimere quei primi dubbi che ci portano a sospettare sull’autenticità del passo in questione, è utile fare un riepilogo storico per poter dimostrare nella maniera più inconfutabile la falsità della testimonianza che la Chiesa trae dagli “Annali” di Tacito per sostenere la storicità di Cristo.

Nella rivolta dei Maccabei (167 a.C), in seguito all’alleanza dei Giudei con i Samaritani, si formò quella setta ebraica che, con il nome di Esseni (ex Asidei), proseguì nella lotta contro l’invasione straniera nell’attesa di un liberatore la cui figura risultò formata dall’unione dei due concetti che ognuna di esse aveva separatamente attribuito al proprio Messia, quello del guerriero davidico giudeo e quello del sacerdote spiritualista samaritano.

Le due correnti rimasero unite fino a quando, in seguito alla sconfitta dell’esercito rivoluzionario (+70) non si separarono di nuovo per continuare ciascuna la propria lotta contro Roma, capitale del paganesimo, secondo il programma che gli veniva dal proprio Messia, quella zelota d’origine giudaica il programma guerriero, quella d’origine asidea il programma spirituale.
Mentre i rivoluzionari giudaici ripresero a combattere in Palestina nell’attesa dell’eroe prescelto da Dio fra gli uomini che li avrebbe portati alla vittoria finale contro Roma, gli spiritualisti, sparsi in tutto il Medio Oriente in comunità in apparenza pacifiste, rimasero a sollecitare l’avvento del loro Messia celeste fino a quando, agli inizi del secondo secolo, una certa corrente filosofica essena d’origine egiziana (gnosi) non pose fine a questa attesa dichiarando che, contrariamente a quanto essi avevano creduto fino ad allora, egli si era in realtà già realizzato svolgendo la sua missione di predicatore sulla terra ma in una maniera così discreta da non essere rimarcato.
Un capovolgimento totale nella religiosità essena spiritualista che, inaccettabile per la sua stravaganza dalla ragione e dal buon senso, fu fatta passare come verità storica attraverso l’interpretazione delle profezie e con tanta sicurezza da trarre da esse anche la data in cui era disceso dal cielo, data che fecero ricadere “nell’anno quindicesimo del regno di Tiberio, procuratore Ponzio Pilato”, come risulta dal Vangelo gnostico di Marcione (140-144) che fu usato poi dai Padri della Chiesa per costruire nella seconda metà del II secolo i vangeli canonici.
Con questo messia gnostico che secondo i filosofi di Alessandria (terapeuti) aveva preso dell’uomo soltanto le apparenze, gli esseni spiritualisti proseguirono concordi fino a quando una parte di essi non decise, intorno all’anno 150, di dargli un corpo per potersi mettere alla pari con le religioni pagane che si presentavano con Soteres che avevano svolto la missione di predicatori da veri uomini. Infatti, la Gnosi, a causa della complessità dei suoi concetti teologici tendenti a sostenere un Messia che, posto come era tra la materia e lo spirito, risultava alla fine di una natura così imbrogliata e confusa da non poter essere considerata né carne né pesce, stava perdendo sempre più terreno di fronte al paganesimo che con le sue divinità incarnate risultava più realista e comprensibile alle masse.
La trasformazione del Cristo spirituale gnostico, comportando l’istituzione dell’eucaristia, determinò la separazione tra gli esseni di origine ebraica, che mai avrebbero potuto accettare di mangiare il proprio Dio, e gli esseni di origine pagana che, provenendo dal Culto dei Misteri, erano già preparati a questa forma di teofagia.
La comunità nella quale si concepì la figura di questo messia incarnato fu quella di Roma. Fu in essa che si sviluppò, a partire dal 150, la nuova religione di Santa Madre Chiesa i cui seguaci, pur avendo assunto il nome di cristiani, non hanno avuto mai nulla a che vedere con i cristiani esseni del primo secolo che erano vissuti nell’attesa di un Cristo (logos) che doveva ancora venire.
Come conseguenza, Roma, per sostenere l’invenzione di questo Messia incarnato del quale nessuno aveva mai sentito parlare, fu costretta a costruirsi tutta una falsa documentazione che andò a costituire quelli che furono dalla Chiesa dichiarati “testi canonici”, quali i quattro vangeli, gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo di Tarso.
Intromessisi attraverso uno sconvolgimento dei fatti nelle vicende del primo secolo, favoriti come erano dal fatto di avere lo stesso appellativo di cristiani, come il cuculo che pone l’uovo nel nido degli altri uccelli, i fautori di questa nuova religione si costruirono una storia appropriandosi delle comunità essene, nonché dei loro seguaci, quali Stefano, Simone (Pietro),Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore che, uccisi dai romani quali rivoluzionari, fecero passare per propri martiri.
Mistificata così la storia attraverso la trasformazione degli esseni in propri seguaci, Roma decise di appropriarsi anche della direzione dell’ideologia religiosa che, nonostante tutte le contraffazioni operate per far sparire ogni traccia essena, risultava appartenere comunque al mondo filosofico orientale che l’aveva originata, con particolare riferimento alla comunità di Gerusalemme che si era fatta risultare come la culla nella quale si era formata e sviluppata. (Vedi Atti degli Apostoli).
Ma su quale presupposto la comunità di Roma poteva arrogarsi il diritto di sostituirsi a Gerusalemme quale leader del nuovo cristianesimo?
E ancora una volta, ricorrendo ad una falsa rappresentazione dei fatti, la soluzione fu trovata trasferendo Pietro a Roma in maniera che facendovelo morire si fosse potuta costruire sulla sua tomba tutta l’impalcatura del cristianesimo nel rispetto di ciò che lo stesso Gesù aveva detto in quella frase che fu appositamente inserita dai falsari nel vangelo di Matteo: << Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa>>.(Mt.16,16).
Fu verso la fine del 200 che cominciarono ad uscire i primi scritti nei quali si diceva che Pietro, secondo la tradizione, era morto a Roma. La sua morte ebbe diverse versioni: In una prima si disse che era stato crocifisso per ordine di Nerone perché aveva provocato la morte di Simone il Mago facendolo sfracellare al suolo mentre, in una sfida di magia, costui stava dimostrando i suoi poteri sovrannaturali in un’esibizione di volo. Ma poiché questa morte non aveva il presupposto perché fosse dichiarato martire, gliene fu attribuita una seconda che, fatta dipendere dalla sua testimonianza al cristianesimo, ebbe a sua volta due diverse finali: nella prima, perché fosse rispettata la morte predettagli da Gesù (Gv. 21-18), si raccontò che era stato trascinato al patibolo piangente e con le mani tese in avanti, nella seconda, avendo ritenuto che non era dignitoso per il capo della Chiesa mostrarsi vile davanti alla morte, fu sostenuto invece che aveva affrontato il supplizio sorridente dopo aver assistito imperturbabile alla morte di sua moglie.
Soltanto verso la fine del VI secolo, cioè dopo che era stata inventata la croce latina, fu coniata quella che diventerà la crocifissione definitiva, che tutt’oggi viene sostenuta, nella quale si dice che Pietro chiese di essere crocifisso con la testa all’ingiù perché non si riteneva degno di essere appeso come il suo Maestro. (Il ridicolo di tale posizione viene messo in evidenza dai films e dai quadri che la riproducono).
In verità, il motivo per cui la Chiesa appese Pietro alla croce con la testa in basso e le zampe all’aria fu determinato esclusivamente dal fatto che due crocifissi uguali, oltre che a generare una confusione nello svolgimento dei riti, avrebbero potuto nuocere alla figura di Cristo.

Lo scisma d’Occidente.

Questo primato sul cristianesimo, basato esclusivamente sulla tradizione, Roma riuscì a imporlo fino a quando, agli inizi del XV secolo, non cominciarono le contestazioni in seguito alla decisione che prese Urbano VI (1378) di riportare il trono di Pietro da Avignone a Roma, decisione che portò i cardinali francesi a porsi domande sulle origini del papato per poter giustificare l’elezione di un antipapa che realizzarono nella persona di Clemente VII.
Fu così che in un continuo succedersi di papi e antipapi che si arrogavano il diritto di poter scegliere ciascuno la propria sede (vedi concili di Pisa, di Costanza, di Basilea, di Ferrara e di Firenze), la discussione sulla legalità del trono di Pietro andò avanti finché l’antipapa Felice V dei Savoia non vi pose termine abdicando nel 1449 in favore del papa Nicolò V vescovo di Roma.
L’argomento base su cui facevano leva i contestatori non era tanto la mancanza di una documentazione che confermasse la venuta di Pietro a Roma (tutte le strade vi ci portano), quanto quella crocifissione che, attribuitagli quale seguace del cristianesimo, non poteva essere storicamente accettata dal momento che i romani, tolleranti come erano sempre stati verso ogni culto, mai avevano eseguito condanne per questioni religiose.
Fu per controbattere questa motivazione che era alla base della contestazione che un certo Poggio Bracciolini, segretario del papa Martino V dei Colonna, rimasto famoso per innumerevoli altre falsificazioni, pensò di dare alla crocifissione di Pietro un movente che non fosse di natura religiosa, tirando fuori nel 1429 il passo di Tacito in questione dicendo che gli era stato consegnato, sotto forma di un manoscritto dell’XI secolo, da un frate venuto in pellegrinaggio a Roma, un frate anonimo che come dal nulla era venuto nel nulla era ritornato.
Lo scopo che il Bracciolini si propose di raggiungere con questo documento non fu tanto quello di dimostrare l’esistenza dei cristiani al tempo di Nerone, cosa questa che nel XV secolo non poteva porre problemi alla Chiesa per via dell’inquisizione che imponeva a crederlo, quanto quello di far dipendere la crocifissione di Pietro non da una causa religiosa, che storicamente non poteva essere accettata, ma da una persecuzione ordinata da Nerone contro i cristiani per aver commesso un reato comune quale quello di avere incendiato Roma.

Falsità del documento.

Che il passo riportato sugli “Annali”, dal quale la Chiesa trae una delle testimonianze per sostenere la figura storica di Gesù, sia un falso ci viene confermato da un’infinità di prove oltre a quella storica per la quale risulta indiscutibile che Pietro non può essere morto a Roma nel 64 se fu giustiziato nel 46 insieme a suo fratello Giacomo sotto il procuratore Cuspio Fado secondo quanto ci viene testimoniato da Giuseppe Flavio: <<Sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro, Giacomo e Simone (Pietro), figli di Giuda il Galileo, furono sottoposti a processo e crocifissi; questi era il Giuda che, come ho spiegato sopra, aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani mentre Quirino faceva il censimento in Giudea>>. (Gius. Fl. Ant. Giud. XX-122).

1) Che Pietro non si trovasse a Roma sotto l’imperatore Nerone ci viene confermato dagli stessi Atti degli Apostoli dal momento che non ne fanno nessuna menzione allorché parlano della venuta di Paolo presso la comunità cristiana di Roma e del suo soggiorno che, secondo la Chiesa, si protrae fino all’anno 67. Un silenzio che assume un significato determinante per dimostrare quanto tutto ciò che si riferisce a Pietro sia tutta un’invenzione cominciando dall’attribuzione della carica di vescovo della comunità di Roma.

2) Prima del 1429, data in cui Bracciolini tirò fuori il documento del frate pellegrino, nessuno aveva mai parlato di questa persecuzione contro i cristiani. L’avevano ignorata Plinio il Vecchio, Giuseppe Flavio, Marziale, Plinio il Giovane, Svetonio, Cassio Dione e gli stessi padri della Chiesa, quali Clemente, Ireneo, Eusebio, Origene, Agostino e Ambrogio, che l’avrebbero ben volentieri citata per controbattere coloro che negavano l’esistenza dei cristani a Roma nel I secolo.
Il silenzio di Svetonio risulta poi particolarmente significativo se consideriamo che quando scrisse la “Vita dei 12 Cesari” egli conosceva gli Annali di Tacito usciti cinque o sei anni prima.
Il fatto che non abbia riportato la persecuzione, quando per lui sarebbe stato un ulteriore ottimo motivo per denigrare Nerone, verso il quale si era dimostrato sempre ostile, dimostra nella maniera più indiscutibile che il passo in questione non esisteva negli “Annali” nella sua edizione originale del 115.

3) Se il passo in questione fosse stato scritto veramente da Tacito, secondo quanto sostiene la Chiesa, come si spiega che egli non fa nessuna menzione della persecuzione dei cristiani nel suo libro “Historia”, scritto soltanto tre anni prima degli Annali, e nulla dice del “Cristo giustiziato” nel capitolo dedicato a Pilato?
Un silenzio questo di Tacito nel suo libro Historia che risulta eccezionalmente grave per la Chiesa perché, oltre che a confermare la falsità del documento, dimostra nella maniera più decisa che mai ci fu un processo contro Cristo sotto Pilato per il semplice motivo che se ci fosse veramente stato, coinvolgendo tutta Gerusalemme con la crocifissione e tutto il Medio Oriente con i suoi terremoti e oscuramenti di sole, avrebbe rappresentato un avvenimento tutt’altro che insignificante per essere taciuto.

4) Come si può poi credere che Tacito abbia potuto scrivere che il fondatore dei “cristiani” sia stato il Cristo giustiziato da Pilato nel trentatré quando lui stesso nel libro “Historia”, scritto precedentemente agli “Annali”, sostiene che i seguaci di questa setta erano stati già espulsi da Roma, quali apportatori di disordini, due volte da Cesare Augusto e una terza dal suo successore Tiberio nell’anno 19? (Emilio Bossi - “Gesù Cristo non è mai esistito” - Cap. III - pag.36).

5) Come si può, poi, non considerare come un’ulteriore prova della falsificazione la contraddizione che ci viene da un Tacito nell’esprimere la pietà che i romani provavano per le sofferenze inflitte a questi cristiani, quando lui in tutti gli altri scritti riferentesi agli spettacoli del Circo (Annali III-27- Germ. 33) dice che le atrocità che venivano in essi operate contro i condannati a morte erano motivo di divertimento per il popolo romano?
Chi altri può aver cercato di suscitare della commozione verso questi cristiani se non una mano interessata a suscitare sentimenti di pietà perché fossero venerati come santi martiri?

Sulpicio Severo.

Ma dove aveva preso Poggio Bracciolini gli estremi per costruire questo falso documento che lui sosteneva di aver ricevuto da un frate pellegrino?
La persecuzione ordinata da Nerone contro i cristiani per avere incendiato Roma fu riportata per la prima volta da un certo Sulpicio Severo (IV sec) nel suo libro “Historia Sacra” (II-29). Questo libro, ritirato dalla circolazione in seguito ad un processo che lo aveva dichiarato una raccolta di assurde invenzioni, fu ricopiato da Bracciolini in maniera così fedele da riprodurne letteralmente alcuni passi con le stesse parole, come quello riguardante i cristiani che venivano bruciati per rischiarare di notte le strade di Roma: <<Ut cum deficisse dies, in usum nocturni luminis urerentur>>.(Come cominciava a far sera, venivano usati come illuminazione notturna).
Soltanto un rimbecillito dal fanatismo religioso avrebbe potuto concepire l’idea di trasformare questa combustione umana in una fonte d’illuminazione da essere usata anche da Nerone per rischiarare i suoi giardini, come viene riportato nel passo in discussione.
<<Anche se questa condanna veniva usata presso i Romani per punire gl’incendiari, non risulta comunque in nesuna parte che si usasse come illuminazione>>, rimarca Renan e Las Vergnas, ridendoci sopra, commenta: <<Questo sistema usato per illuminare è davvero bizzarro. Io immagino che un cristiano che brucia, anche se cosparso di cera, possa friggere, carbonizzare, appestare ma non rischiarare. Molto fumo e poca luce. Per averne una conferma si potrebbe provare con due o tre frati cappuccini>>.
Per dimostrare la demenza di Poggio Bracciolini e di quanti hanno creduto e continuano a credere a questa assurdità, basterebbe considerare la reazione che potrebbe avere il nostro vicino di casa se gli si cuocessero sotto la finestra quattro braciole alla griglia, almeno che costui non sia quel Dio della Bibbia a cui certi fetori risultano particolarmente graditi. (Lev. 17-6).

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Plutarco

Nulla di nulla da parte di Plutarco che si riferisca a Gesù e ai cristiani, e come lui nessuna menzione da parte di Giovenale, Pausania e Cassio Dione il quale ultimo avrebbe avuto modo di parlarne, se fossero veramente esistiti, nel suo libro "Storia Romana" che tratta delle vicende di Roma che vanno dal 67a.C. al 47 d.C.

Soltanto Lucien di Samosate (125-192) fa riferimento ad un mago morto in croce per aver introdotto un nuovo Culto dei Misteri che, essendo d'ispirazione siriana, non possono essere che un un'ulteriore conferma di un qualcuno che, qualora fosse veramente esistito, non sarebbe potuto essere altri che un seguace dell'ideologia essena che si era sviluppata appunto in Siria secondo i concetti della religione Mitraica.


Celso

Accanito critico anticristiano, vissuto proprio nel periodo in cui i primi cristiani costruivano i vangeli e gli Atti degli Apostoli in seguito allo scisma determinato dall'introduzione del Sacramento Eucaristico in seno alle comunità essene, (vedi Favola di Cristo), Celso* scrisse alla fine del II secolo un libro dal titolo "Contro i Cristiani" nel quale puntualizzava tutti gl'imbrogli che essi stavano facendo "per costruire la figura di un mago che, qualora fosse veramente esistito, poteva tutt'al più essere quella di uno dei tanti ciarlatani che avevano percorso la Palestina imbrogliando la gente".

Ed è proprio in questo periodo, cioè alla fine del II secolo, che per la prima volta viene nominato il nome "Gesù" da Origene nel suo libro "Contra Celsum", da lui scritto per rispondere alle accuse che Celso rivolgeva alla Chiesa a proposito di questo nome che avevano dato al loro eroe che fino a quel momento era stato chiamato con gli appellativi generici di Signore, Cristo, Messia e Salvatore.

Il nome di Gesù che troviamo nei testi precedenti fu aggiunto soltanto in seguito, cioè nel II, III e IV secolo. Che i vangeli siano sottoposti a continue modifiche di aggiornamento ci viene dall'ultima trasformazione che si sta operando in essi nelle edizioni moderne sul nome di Nazareno, che viene sostituito con quello di Nazarettano, da quando si è fatto rimarcare che questo è il vero appellativo dipendente dalla città di Nazaret.

* Del libro di Celso "Contro i Cristiani" (distrutto dalla Chiesa), rimangono soltanto le frasi che furono riportate da Origene nel suo "Contra Celsum" come quella che dice: << La verità è che tutti questi fatti da voi riportati sul vostro eroe a cui avete dato il nome di Gesù, non sono che delle invenzioni che voi e i vostri maestri avete fabbricato senza pertanto riuscire a dargli una minima parvenza di credibilità>>. (Da "Contro i Cristiani" di Celso).

Filone Alessandrino

Filone Alessandrino, morto nel 50 e quindi vissuto nel pieno dell'era messianica, quale filosofo neoplatonico, parla del Logos che le comunità essene attendevano come Messia realizzatore di una giustizia sulla Terra, ma nulla dice di Gesù e dei cristiani.

È mai possibile che se veramente ci fosse stata in Alessandria, la città in cui viveva, quella nuova religione cristiana verso la quale affluivano tante conversioni di popolo, di ufficiali romani, di nobili e di politici secondo quanto raccontano i testi sacri, egli non avrebbe detto nulla di essa? Possibile che avrebbe ignorato quel Paolo di Tarso di cui tutti parlavano, sia amici che nemici, per le sue prediche e per i suoi miracoli, se le cose si fossero passate veramente come ci vengono raccontate dagli Atti e dalle Lettere?


Giusto di Tiberiade

Che Giusto di Tiberiade, storico contemporaneo e rivale di Giuseppe Flavio, non parli né di Gesù, né dei cristiani nel suo libro perduto "Storia della Guerra Giudaica", lo sappiamo da Potius, Patriarca di Costantinopoli, che nel IX secolo, dopo aver cercato inutilmente qualche riferimento a Gesù in una copia del libro che egli ancora possedeva, esprimendo tutta la sua meraviglia, così conclude: <<Giusto di Tiberiade non fa nessuna menzione della nascita, degli avvenimenti e dei miracoli che sono stati attribuiti a Gesù >>.


Flavio Giuseppe

Conoscere Giuseppe Flavio nelle sue caratteristiche religiose e politiche è determinante per comprendere la confutazione del cosiddetto “testamentum Flavianum” dal quale la Chiesa trae quella che per lei rappresenta la prova fondamentale dell'esistenza storica di Gesù. Nato nel 38 e morto intorno all'anno 100, Giuseppe Flavio fu testimone oculare dell'ultimo periodo dell'era messianica e dell'evoluzione religiosa ebraica che seguì la guerra giudaica del 70. Politicamente simpatizzò per Roma e religiosamente fu un così convinto seguace della fede ebraica da ritirarsi nel deserto per passarvi tre anni della sua giovinezza in meditazioni e preghiere. Discendente da una famiglia di sacerdoti farisaici, ricevette incarichi parareligiosi che svolse con tanto zelo da meritarsi l'incarico di recarsi a Roma per ottenere la liberazione di alcuni sacerdoti che erano stati arrestati dal procuratore Felice. Entrato nella convinzione che un'attesa passiva del Messia basata sulla rassegnazione e la preghiera, quale era quella praticata dai Farisei, non avrebbe dato nessun risultato finché la Palestina sarebbe rimasta sotto l'occupazione romana, considerando che i principi morali esseni erano gli stessi di quelli farisaici per ciò che riguardava l'eternità dell'anima e la resurrezione dopo la morte, prese la decisione di passare all'essenismo rivoluzionario pur conservando quei principi di moderazione e di saggezza che dovevano essere seguiti prima di dare inizio ad una vera e propria rivolta armata. Fu per questa sua politica basata sulla prudenza e la riflessione che lo portava ad osteggiare l'estremismo zelota, che nel 64 Giuseppe Flavio fu incaricato dal Sinedrio di recarsi in Galilea per convincere i rivoluzionari a procrastinare la guerra che stavano preparando contro Roma. (I rivoluzionari venivano chiamati Galilei perché era in Galilea che organizzavano le scorribande sulla Palestina e gli attacchi contro i soldati romani). Fallito come moderatore, Giuseppe Flavio si ritrovò coinvolto nella guerra del 66 che combatté con la qualifica di ufficiale dell'esercito rivoluzionario finché, in seguito all'assedio della città di Iotapala, nella quale si era rifugiato con i compagni, non fu costretto alla resa. Per sfuggire alla cattura che avrebbe comportato una condanna alla crocifissione, Giuseppe Flavio con quaranta dei suoi soldati si nascose in una cisterna dove rimase finché non prese la decisione di darsi volontariamente la morte secondo quelle convinzioni essene che furono seguite nel 74 anche da Eleazaro nell'assedio di Masada nel quale si suicidarono con la spada 1000 guerriglieri seguendo un odine di morte basato sull'estrazione dei loro nomi. Il capo si uccideva per ultimo. Ma, a differenza di Eleazaro, che mantenne la parola, Giuseppe Flavio, dopo aver assistito ai suicidi, invece di darsi la morte convinse l'ultimo dei suoi dipendenti che era rimasto vivo con lui, di rinunciare alla morte e di consegnarsi prigionieri ai romani. Condotto davanti a Vespasiano, che dirigeva allora la guerra contro l'esercito giudeo, era l'anno 67, Giuseppe Flavio, improvvisandosi profeta, gli preannunciò che presto sarebbe diventato imperatore di Roma. Avveratasi la profezia nel 69, Vespasiano, ricordandosi di lui per la profezia che gli aveva dato, lo tirò fuori dalla prigione e lo affiancò come persona meritevole di fiducia, al figlio Tito che nel frattempo aveva preso il suo posto di generale in Palestina. Terminata la guerra giudaica, con la disfatta dell'esercito giudaico, Giuseppe Flavio venne con Tito a Roma dove visse come ospite della corte Imperiale attendendo ai suoi lavori storici. Fu in seguito a questo comportamento amicale che ricevette dalla famiglia imperiale Flavia che Giuseppe, da buon ruffiano, aggiunse al suo nome, in segno di riconoscenza, l'appellativo di Flavio. Per quella libertà che i romani concedevano a tutte le religioni, Giuseppe Flavio rimase fino in ultimo un fervente sostenitore della religione ebraica e su di essa educò i figli. Quello che rimarchiamo nei suoi scritti è la convinzione che sempre rimase in lui di sostenere una politica di distensione tra il mondo ebraico e Roma, convinzione che espresse attraverso l'esaltazione del pacifismo delle comunità essene e il disprezzo verso l'estremismo di quei zeloti rivoluzionari che dopo il 70 lottavano ancora contro Roma. Una politica sicuramente basata sull'ipocrisia dal momento che il programma esseno, anche se in una forma apparentemente non guerriera, considerava nel suo concetto di universalità l'annientamento totale di ogni altra ideologia religiosa che si sarebbe realizzato con l'avvento del loro Messia. Giuseppe Flavio, quale seguace dell'essenismo, rimase fino alla morte nell'attesa di quel Messia celeste il cui avvento veniva sollecitato dalla corrente spiritualista come risulta dalle prime lettere di Paolo di Tarso, dai terapeuti d'Egitto seguaci del logos di Filone, e dall'ultimo capitolo dell'Apocalisse nel quale l'autore si rivolge a lui dandogli l'appellativo di Gesù. Giuseppe Flavio visse fino all'ultimo giorno nella ferma credenza dell'ebreo esseno che attende ancora l'avvento del Cristo spiritualista. (Dire Cristo o Messia è la stessa cosa essendo Cristo la traduzione in greco della parola ebraica Messia ). Fatta questa breve esposizione sulla persona di Giuseppe Flavio, dalla quale risulta sopra ogni cosa la sua fedeltà alla religione ebraica, passiamo ora ad analizzare i due passi dai quali la Chiesa trae le testimonianze dell'esistenza storica di Cristo.

Prima testimonianza.

La prima testimonianza viene tratta da “Antichità Giudaiche”. << Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a se molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo . Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno apparve a loro nuovamente vivo : perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù che da lui sono detti cristiani>>. (Ant, Giud. 18,63-64).

Analisi della citazione:

1) Basta prendere in esame l'affermazione nella quale viene riconosciuto che Gesù è il Cristo, cioè quel Messia annunciato dai profeti che il mondo ebraico attendeva ancora, per renderci subito conto che non può essere stata scritta da Giuseppe Flavio quale seguace fedele della sua religione. Come può un ebreo che aspetta ancora il Messia riconoscere che si è realizzato e, per giunta, nella persona di un fondatore di un'altra religione? Un'incoerenza che portò Voltaire a esclamare: << Se Giuseppe Flavio era così convinto che Gesù fosse il Cristo, perché non si è fatto cristiano?>>.

2) Come avrebbe potuto osare Giuseppe Flavio, mentre era ospite della famiglia imperiale, manifestare tanta ammirazione verso questo Messia quando i suoi seguaci, chiamati cristiani, erano considerati i peggiori nemici di Roma?

3) Come ha potuto scrivere Giuseppe Flavio che fu Ponzio Pilato a condannare Gesù quando nel capitolo di “Antichità giudaiche” che riguarda Pilato riporta di lui tutti i particolari, compresi i più marginali, e nessuna menzione fa di questo processo che, stando alla chiesa, coinvolse sommi pontefici, re e tutta la popolazione di Gerusalemme senza contare i terremoti che lo seguirono e gli oscuramenti del sole?

4) Come può uno scrittore attento e perfezionista nell'esposizione dei fatti, come lo era Giuseppe Flavio, aver introdotto questo passo fra due fatti che retoricamente lo escludono? Come può aver intromesso un fatto tutt'altro che nefasto nel pieno di una cronaca riportante una serie di sciagure? L'apologia di un uomo giusto che aveva predicato la verità, che aveva compiuto miracoli, che continuava ancora ad essere seguito anche dopo la morte da coloro che lo avevano amato durante la vita, inserito tra due avvenimenti riportanti uno una strage di giudei e l'altro una crocifissione di sacerdoti, risulta così fuori ogni logica da farlo apparire come i cavoli a merenda. Questo passo, mai nominato in tutte le diatribe che ci furono tra gli oppositori del cristianesimo che negavano l'incarnazione e i padri della Chiesa che la sostenevano, quali Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del II secolo, Clemente Alessandrino (150-215) che lo avrebbero certamente citato per dimostrare la storicità di Cristo, fu per la prima volta menzionato da Eusebio da Cesarea, nel 324 suscitando il legittimo sospetto che fosse stato proprio lui ad inventarselo, sospetto che divenne certezza allorché il patriarca Fozio dichiarò esplicitamente che nella copia che lui aveva di “Antichità Giudaiche”, una delle pochissime non manipolate che erano ancora rimaste in circolazione, Giuseppe Flavio non faceva nessuna menzione di Gesù e dei suoi miracoli. (J.P. Pigne, Patrologie Cursus Conpletus, Series Graeca, Tomus CIII. Pfozius Costantinopolitanus Patriarca). Un'altra prova che ci conferma che il passo è stato interpolato ci viene da Rylands il quale ci dice che uno studioso del XVI secolo, di nome Vossius, aveva ancora un esemplare manoscritto di “Antichità Giudaiche” nel quale mancava ogni riferimento a Gesù. (Gordon Ryland, Did Jesus Ever Live?, Watts & Co., London, 1929. Pag. 20).

Storia e analisi di una grossolana falsificazione.

In seguito alla separazione che avvenne intorno al 150 tra i materialisti (sostenitori dell'incarnazione) e gli gnostici che sostenevano un Messia spirituale che aveva preso dell'uomo soltanto le apparenze, sorsero diatribe tra le più accese. I materialisti, che da ora in poi chiameremo i “nuovi cristiani” per distinguerli da quelli che già da prima di loro venivano chiamati così dai pagani perché sostenitori di un Cristo che, che doveva ancora venire, sprovvisti come erano di testimonianze che dimostrassero l'esistenza storica del loro Messia incarnato a cui avevano dato il nome di Gesù, furono costretti a costruirsele. Fu in questo periodo, cioè nella seconda metà del II secolo che s'inventarono i quattro vangeli canonici, gli atti degli Apostoli e manipolarono le lettere di Paolo di Tarso che Marcione aveva portato nel 144 a Roma da Sinope sul mar Nero. Ma per quanto questi nuovi cristiani cercassero di costruire l'esistenza del loro Messia incarnato nella maniera più convincente, i primi documenti che scrissero, essendo basati su ricopiature e manipolazioni tra le più sfrontate, vennero fuori pieni di tutte quelle contraddizioni e incoerenze che cercarono poi di riparare nel corso degli anni che seguirono via via che esse venivano fatte oggetto di contestazione e spesso di derisione da parte della critica avversaria. I quattro vangeli, privi tutti della nascita di Gesù, cominciavano con un Messia che aveva dato inizio alle predicazioni partendo da Cafarnao all'età di trenta anni esattamente come veniva sostenuto nel vangelo di Marcione scritto nel 140 con la sola differenza che in quello di Marcione era essenzialmente spirituale (gnostico) mentre in quello dei nuovi cristiani era dichiarato uomo a tutti gli effetti. È importante sapere, per comprendere come i primi documenti riferentisi a Gesù fossero stati tratti da altri scritti, che intorno al 160 Marcione accusò pubblicamente i neo-cristiani di aver costruito i loro vangeli ricopiandoli dal suo. Le nascite furono aggiunte nei vangeli di Matteo e di Luca soltanto tra il III e il IV secolo allorché i padri della Chiesa dovettero giustificare la natura umana del loro Gesù dandogli una nascita terrena, quella nascita che come conseguenza portò l'invenzione di Maria e di Giuseppe. I contrasti nei luoghi e nei tempi e le contraddizioni storiche esistenti tra la nascita riportata da Matteo e quella riportata da Luca dimostrano nella maniera più evidente quanto nel IV secolo la Chiesa stesse ancora annaspando per dare alla figura di Gesù una personalità umana. Le diatribe tra i nuovi cristiani e tutta la parte religiosa opposta, costituita da pagani, ebrei e gnostici, si protrassero in un libero scambio di espressione fino a quando Costantino non arrivò alla decisione di fare del cristianesimo la religione di Stato sia per porre termine ai disordini sociali che i seguaci di questa nuova religione generavano a fine ricattatorio contro lo Stato attraverso continue sommosse e ribellioni e, soprattutto, con la renitenza al servizio militare, e sia perché, coinvolgendo tutti i ceti, gli apparve il più idonea per divenire la religione dell'Impero. Forti, così, dell'appoggio che gli veniva dai vari editti di Castantino, quali quello del 313 che concedeva ai cristiani la libertà di stampa e la salvaguardia dalle ingiurie degli eretici, quello del 315 che minacciava di severe punizioni gli ebrei che avessero ostacolato i loro correligionari a convertirsi al cristianesimo, quello del 319 che concedeva speciali immunità e privilegi ai sacerdoti cristiani, quello del 324 nel quale egli stesso si dichiarava essere passato al cristianesimo ed esortava tutti i sudditi a convertirsi a questa religione, e dalle tante altre leggi che tendevano ad eliminare in maniera sempre più decisa il paganesimo, l'ebraismo e lo gnosticismo, i padri della Chiesa, tra i quali primeggiarono Eusebio e Ambrogio da Milano, operarono le maggiori contraffazioni sui Testi Sacri e i libri storici, contraffazioni che sfrontatamente imposero ricorrendo a quelle ritorsioni e punizioni che seguivano una condanna di eresia di cui ne conosciamo bene il seguito. Ritirati il più possibile dalla circolazione il libri di Giuseppe Flavio, i padri della Chiesa cercarono di sostituirli con edizioni totalmente contraffatte. Tolsero i passi che compromettevano la figura di Cristo, quali quelli che si riferivano alla famiglia degli Asmonei della quale è indubbio che Giuseppe Flavio ne abbia largamente parlato essendo stata la principale promotrice delle guerre giudaiche, e aggiunsero quelli che gli avrebbero permesso di sostenerne la storicità. È a questo punto che uscì una versione in lingua latina della “Guerra Giudaica” firmata da un certo Egesippo, dichiarato scrittore cristiano del II secolo di cui nessuno fino ad allora aveva mai sentito parlare e del quale si conoscevano soltanto i passi citati da Eusebio. La scelta di questo nome Egesippo è già di per se più che sufficiente per dimostrare l'intenzionalità a costruire un falso per l'equivocità che esso rappresenta da momento che un libro firmato con questo nome, derivando dal greco “Ioseppus”, che significa appunto Giuseppe, lo si sarebbe potuto far passare per quello autentico scritto da Giuseppe (Flavio). Ma oggi tutti gli esegeti, esclusi quelli che sono condizionati da un servilismo ecclesiastico, sono concordi nel riconosce che questa versione della “Guerra Giudaica”, attribuita a Egesippo, fu scritta da Ambrogio da Milano (Santo). Eusebio (chiamato dagli esegeti “il falsario per antonomasia” per le innumerevoli contraffazioni operate sui libri storici e su gli stesse Testi Sacri) autore del libro “Historia ecclesiastica”, per giustificare le falsità che s'inventava le faceva passare per informazioni che gli erano venute dai libri di Egesippo, informazioni che, ammesso pure che siano state veramente scritte alla fine del II secolo, ci portano a chiederci da dove fossero state prese dal momento che si riferiscono a fatti accaduti comunque 150 anni prima. Per via delle contestazioni che gli storici rivolgevano ai frati amanuensi per aver fatto sparire la “Guerra Giudaica ” originale, la Chiesa fu costretta a rimettere in circolazione nel VI secolo un'edizione di Giuseppe Flavio che in realtà non era altro che la riproduzione di quella di Egesippo che è quella che ci è pervenuta. Guy Fau, esegeta francese, ex monsignore e professore di teologia convertitosi all'ateismo, ha dichiarato che è impossibile conoscere la verità storica messianica attraverso lo studio della “Guerra Giudaica” della quale oggi disponiamo tanto le falsificazioni e le interpolazioni l'hanno resa incompressibile. Stimolati dal successo che ebbero nel mondo cristiano le contraffazioni che i padri della Chiesa operarono sulle opere di Giuseppe Flavio attraverso le loro traduzioni, numerosi furono coloro che negli anni che seguirono vollero fare altrettanto introducendo ciascuno nella propria versione ciò che più riteneva favorevole per dare una credibilità storica al cristianesimo. Nel VI secolo ci fu una traduzione della “Guerra Giudaica” in lingua siriaca alla quale fu dato il nome di “V libro dei Maccabei”. (Titolo giustificato dal fatto che “ La Guerra Giudaica ” di Giuseppe Flavio comincia dalla rivolta dei Maccabei). Un'altra elaborazione delle “Antichità Giudaiche” fu eseguita nel X secolo da un certo Yosef ben Gorion che si firmò con lo pseudonimo di Yosippon (Yosippon sta per Giuseppe). Ce ne furono altre nel XII secolo in lingua armena e slava che furono presentate come traduzioni eseguite direttamente dalla prima versione di Giuseppe Flavio scritta in aramaico che risultarono essere una volgare elaborazione di quella attribuita ad Egesippo. Fatta questa breve cronistoria delle falsificazioni che furono eseguite sui libri di Giuseppe Flavio, dalla quale possiamo comprendere come i cattolici abbiano sempre cercato di dimostrare l'esistenza di Gesù attraverso la falsificazione dei documenti, ritorniamo sulla famosa prova, chiamata “Testamentun Falvianum”, che la Chiesa stessa è stata costretta ad ammettere di essere falsificata, almeno in parte, per via della identificazione del Cristo nella persona di Gesù e del riconoscimento della sua resurrezione che un ebreo non avrebbe mai potuto riconoscere né tanto meno sostenere.

<< Tolte queste due affermazioni , sostiene la Chiesa per rendere credibile tutto il resto della testimonianza, che molto probabilmente sono state aggiunte da una mano pietosa mossa da un eccesso di fede, tutto il resto non può essere contestato perché Giuseppe Flavio, sapendo che Gesù era esistito, doveva pur dire qualche cosa su di lui >>. Altro sofisma a cui ricorre ancora una volta la Chiesa per affermare una sua verità, che in questo caso è rappresentato dal presupposto errato di dare per certa l'esistenza di Gesù.

Ma come dimostrare che tutto il resto, tolta l'affermazione che riconosceva Gesù per vero Messia, era stato scritto veramente da Giuseppe Flavio? Questa dimostrazione che ha sempre messo in grosse difficoltà la Chiesa perché tra i contestatori ce ne sono anche di cattolici, ci viene fornita da Vittorio Messori nel suo libro “Ipotesi su Gesù” (pag. 197) dicendoci che un certo Prof. Shlomo Pines ha scoperto che in un'opera araba del X secolo, “Storia universale di Agapio”, vescovo di Hierapoils, viene riportato il Testamentum Flavianum nella sua forma originale, cioè senza quelle “espressioni di fede” che, secondo la Chiesa erano state aggiunte in buona fede da una mano pietosa. Questo è il passo che il prof. Pines ha trovato su “Storia Universale di Agapio”: << A quell'epoca viveva un saggio di nome Gesù. La condotta era buona, ed era stimato per le sue virtù. Numerosi furono quelli che, tra i giudei e le altre nazioni, divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò ad essere crocifisso e a morire. Ma coloro che erano divenuti suoi discepoli non smisero di seguire il suo insegnamento. Essi raccontarono che era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo. Forse era il Messia di cui i profeti hanno raccontato tante meraviglie >>.

Come si vede, le frasi “ egli era il Cristo ” e “ apparve loro nuovamente vivo ” che vengono riconosciute false per la loro forma affermativa, vengono trasformate la prima sotto una forma dubitativa e la seconda in un racconto da poter essere entrambe accettate anche se scritte da un ebreo. Interessante, poi, è l'osservazione di Pines (riportata da Messori) che, per controbattere l'obbiezione di coloro che potrebbero vedere nell'eliminazione delle frasi compromettenti un'ulteriore falsificazione, dice che non si può ammettere che un ecclesiastico, come Agapio, abbia potuto togliere dal testo proprio quelle espressioni che per lui avrebbero rappresentato la testimoniavano storica di Cristo. A questo punto due sono le cose, o Pines e Messori, che lo sostiene, sono degli ingenui, o loro credono che noi siamo dei minchioni. Chi altri, più di un ecclesiastico, avrebbe avuto interesse di togliere le parole che rendevano evidente la falsità del passo? Chi altri più di un prete avrebbe avuto l'interesse di togliere l'impedimento che rendeva inaccettabile la testimonianza di Giuseppe Falvio? A proposito di “Ipotesi su Gesù” di Messori posso dire e dimostrare che mai fu stampato nulla di più ateo di questo libro; soltanto il fatto che esso si basi la dimostrazione dell'esistenza di Gesù su delle ipotesi, dimostra nella maniera più evidente che colui che lo ha scritto è il primo dubitare di ciò che sostiene.

Seconda prova: fratello di Gesù.

La seconda prova dell'esistenza di Gesù la Chiesa la trae da un passo di “Antichità Giudaiche” nel quale si parla di un certo Giacomo che fu condannato alla lapidazione nell'anno 62: << Con il carattere franco e audace che aveva, Anano pensò di avere un'occasione favorevole alla morte di Festo mentre Albino era ancora in viaggio: così convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, che era soprannominato il Cristo, e certi altri, con l'accusa di avere trasgredito la legge, e li consegnò perché fossero lapidati>>. (Ant. Giud. XX-200). Questa presentazione di un personaggio dichiarato fratello di Giacomo il cui nome viene fatto seguire dal soprannome Cristo come se si volesse attraverso questa specificazione confermare che sia proprio il Gesù della Chiesa, avendo tutte le caratteristiche di una forzatura operata per introdurlo nella storia, continua ad alimentare quelle polemiche che, perpetuandosi ormai da secoli, possono essere definitivamente eliminate soltanto da un'attenta analisi dei fatti. Chi era Anano? Anano era un giovane religioso che dopo essersi distinto nella lotta contro i rivoluzionari zeloti venne eletto nel 62 Sommo Sacerdote dal re Agrippa. Alla morte del procuratore Festo, avvenuta soltanto tre mesi dopo avere assunto questa carica, seguendo l'impulso del suo carattere, che Giuseppe Flavio ci presenta risoluto e ardito, Anano pensò che sarebbe stata osa gradita al nuovo procuratore Albino se gli avesse fatto trovare ammazzati dei malfattori che non potevano essere che dei rivoltosi zeloti se intendeva riconfermare con la loro morte la sua fedeltà a Roma. Ma, purtroppo, invece di ricevere il plauso che s'aspettava, Anano pagò la sua iniziativa con la destituzione dalla carica di Sommo Sacerdote per aver contravvenuto alla legge che riservava le condanne a morte soltanto a un tribunale romano.

E chi era questo Giacomo, fratello di Gesù, del quale ci parla Giuseppe Flavio?

Prima di rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto tenere presente che il termine Gesù non ebbe nel primo secolo e per tutta la prima metà del secondo il significato non di nome proprio, come s'intende oggi, ma soltanto quello di appellativo come tutti gli altri che si davano al Salvatore del popolo d'Israele, quali Messia, Signore e Cristo. Ciò esclusivamente perché il “Salvatore” d'Israele, non essendosi ancora realizzato nella persona di nessuno, non poteva assolutamente avere un nome. Il nome Gesù assunse il significato di nome proprio soltanto nella seconda metà del II secolo quando i nuovi cristiani presentarono il Messia nella persona di un uomo che era esistito come ci viene confermato da Celso che nel 180 esplicitamente accusò i nuovi cristiani di questo abuso: << Colui al quale avete dato il nome di Gesù era in realtà un capo brigante>>. (Celso-”Contro i Cristiani). Chiarito così come nel primo secolo i termini di Gesù, Signore, Messia e Cristo erano tutti appellativi dallo stesso significato, nella certezza che Giuseppe Flavio fosse a conoscenza di questa sinonimia, non possiamo evitare di sorprenderci di come abbia potuto scrivere nel 95 una frase che può risultare soltanto insulsa, se non addirittura ridicola, con uno qualsiasi degli altri appellativi come, per esempio “Cristo”: << Onano introdusse davanti al Sinedrio un uomo di nome Giacomo, fratello di Cristo, soprannominato Cristo>>, e di conseguenza concludere che il nome di Gesù nasconda in realtà un nome proprio. Fatta questa prima osservazione, continuiamo nella nostra analisi considerando questa fratellanza che Giuseppe Flavio pone tra Giacomo il Minore e questo qualcuno a cui è stato dato il soprannome di Cristo. Se questo Giacomo, detto il Minore, risulta essere fratello di colui al quale veniva dato l'appellativo Cristo e di Signore, di conseguenza egli sarà anche fratello di un altro Giacomo, detto il Maggiore, e di un Simone che vengono dichiarati anch'essi, come viene confermato dagli stessi Testi Sacri e da un abbondate documentazione extratestamentaria, fratelli di Cristo e del Signore. Chi erano Giacomo il Maggiore e Simone fratelli di Giacomo il Minore? Erano due rivoluzionari zeloti che furono crocifissi a Gerusalemme nel 46 dal procuratore Tiberio Alessandro: << Sotto l'amministrazione di Tiberio Alessandro, Giacomo e Simone, figli di Giuda il Galileo, furono sottoposti sotto processo e crocifissi; questi era il Giuda che, come ho spiegato sopra, aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani mentre Quirino faceva il censimento in Giudea>>. (Ant. Giud. XX-122). Come si vede, siamo di fronte a quella famiglia asmonea che fu la principale autrice delle rivoluzioni messianiche: Giuda il Galileo, promotore della rivolta del censimento, e tre dei suoi figli i cui nomi sono Giacomo il Maggiore, Simone e Giacomo il Minore ai quali possiamo aggiungere, già che ci siamo, un certo Giuda che risulta anche lui essere un fratello di questo Cristo-Signore che, da quanto ci riferisce Eusebio, ci apparteneva nella maniera più inequivocabile alla famiglia asmonea di Giuda il Galileo quale discendete della stirpe di Davide: << Della famiglia del Signore rimanevano ancora al tempo di Domiziano (81-96) i nipoti di Giuda, detto fratello del Signore secondo la carne, i quali furono denunciati sotto l'accusa di essere appartenenti alla famiglia di Davide >>. (Epifanio- Hist. Eccl. III-20,1). Questo Giuda, i cui nipoti sono accusati di appartenere a quella famiglia di Davide che nell'era messianica aveva dato tanti problemi a Roma e continuava a darne anche dopo la guerra giudaica del 70 attraverso i suoi discendenti quali sostenitori rivoluzionari di un Messia che ancora aspettavano, era un altro figlio di Giuda il Galileo che aveva fatto parte di quella banda di Bohanerges, condotta dal fratello primogenito, che fu metamorfizzata nella squadra di Cristo con opportune modifiche dei loro nomi, come nel caso di questo Giuda il cui soprannome di Taddeo (Theudas), che significa coraggioso, fu trasformato nel nome proprio di un discepolo. Ci sarebbero ancora tante osservazioni da fare su questo passo riportato da Epifanio per dimostrare come la Chiesa si regga su una sequela di improvvisazioni e di abborracciamenti a cui è stata sempre obbligata a ricorrere per atturare quei buchi che via via si aprivano nel tempo, quale quello che riguarda la verginità della Madonna che fu stabilita dai teologi soltanto dopo il IV secolo dal momento che lo stesso Epifanio, padre della Chiesa, dichiara di ignorarla se ancora attribuisce agli inizi del quattrocento una fratellanza carnale tra Giuda e il Signore (Gesù).

La Chiesa per quanto possa rigirare la frittata non potrà mai dimostrare attraverso la frase riportata su “Antichità Giudaiche”, anche se l'avesse veramente scritta Giuseppe Falvio, che il fratello di Giacomo il Minore sia il suo Gesù crocifisso nell'anno 33 per la contraddizione che c'è tra la sua stessa affermazione che lo vuole discendente di Davide, e la realtà storica che ci dà per certo che nel 62, cioè quando fu lapidato Giacomo, il Messia della stirpe di Davide era ancora lontano dal venire. A questo punto, stando così le cose, non ci resta che rivolgere alla Chiesa una sola domanda perché tutto il suo castello crolli: Il Vostro Gesù è o non è della stirpe di Davide? Se lo è non può essere quello da voi dichiarato crocifisso nel 33, se non lo è allora il vostro Gesù è un personaggio che viene escluso dalla storia. Ma chi erano allora quei cristiani che la Chiesa sostiene essere i seguaci del Gesù morto nel 33? La risposta sarà data in maniera esauriente allorché “sbugiarderò” quella che don Enrico ha portato come prova riferendosi alla lettera che Plinio il Giovane scrisse da Bitinia all'Imperatore Trainano. Una cosa per volta! Ma prima di chiudere, voglio ritornare sulla frase in oggetto per apportare in essa quella piccola modifica che, togliendola dal ridicolo datole da un falsario, la renderebbe logica letteralmente e storicamente accettabile come sarebbe risultata se fosse stata scritta veramente da Giuseppe Flavio che avrebbe messo il nome proprio di colui al quale l'appellativo Gesù si riferisce: << Anano convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Giovanni, che era soprannominato Cristo, e certi altri, con l'accusa di avere trasgredito la legge, e li consegnò perché fossero lapidati >>.

Sicuramente anche Epifanio dovette accorgersi del pericolo che veniva da una fratellanza che, basata com'era su due appellativi che, riferendosi al primogenito di Giuda il Galileo, portavano agli Asmonei, se cercò di rattoppare la gaffe specificandone il padre: << In quel tempo Giacomo, fratello del Signore, poiché anch'egli era chiamato figlio di Giuseppe e Giuseppe era il padre di Cristo>>. (ist. Eccl. II-1,2).

È così che la Chiesa ha costruito la sua storia!

Agli oppositori che chiesero a Epifanio dove avesse preso questa informazione riguardante la paternità di Gesù e Giacomo il Minore, della quale nessuno fino ad allora aveva mai parlato, candidamente rispose che l'aveva tratta dai libri di Egesippo.

Santificazione dei fratelli zeloti.

San Giacomo il Minore :

Dal testo ecclesiastico “Santi di Pienza”:

<< Nel Nuovo Testamento si parla diverse volte di un apostolo di nome Giacomo, chiamato anche Giacomo di Alfeo (per distinguerlo da Giacomo il Maggiore figlio di Zebedeo), fratello di Gesù (cugino), figlio di Maria di Cleofa. Viene martirizzato nel primo secolo, così come viene raccontato da Giuseppe Flavio e Egesippo (Eusebio), vittima del fanatismo giudaico. Capitò che alcuni dei seguaci delle varie sette, prendendo spunto dal vangelo di Giacomo (10-7), gli chiesero chi fosse la porta delle pecore e siccome Giacomo rispose che era il Signore, molti credettero in Gesù . Gli Scribi e i Farisei, preoccupati di questa sua affermazione, si riunirono e chiesero a Giacomo di ritrattare ciò che aveva detto gridandolo forte dal pinnacolo del Tempio. Quando fu sul pinnacolo egli gridò a gran voce: <<Perché m'interrogate sul Figlio dell'uomo che siede in cielo alla destra della grande Potenza e tornerà sulle nubi del cielo?>>. Gli Scribi e i Farisei, contrariati da quanto aveva detto Giacomo, salirono sul pinnacolo e lo gettarono giù. Giacomo non morì dopo la caduta e così iniziarono a lapidarlo. Giacomo si rigirò e in ginocchio pregò per i suoi carnefici. Frattanto uno dei presenti, che di mestiere era lavandaio, afferrato uno di quei bastoni con cui si battono i panni, lo vibrò sul capo di Giacomo e così lo martirizzò. I fedeli lo seppellirono in un luogo vicino al Tempio, dove ancora una lapide lo ricorda >>. (Viene festeggiato il 3 marzo insieme a s. Filippo). Questa versione della morte di Giacomo il Minore, che è quella riconosciuta formalmente dalla Chiesa, non doveva essere ancora conosciuta nel IV secolo quando Epifanio lo fece morire di vecchiaia: << Giacomo il Minore era un asceta. Si asteneva dal lavarsi e non si tagliava mai i capelli né la barba. A forza di pregare, la pelle dei ginocchi gli era diventata dura come quella dei cammelli>>.

Giacomo il Maggiore :

<< Giacomo il Maggiore fu, con i suoi fratelli Giovanni e Pietro, tra i discepoli prediletti del Signore. Gli Atti degli Apostoli narrano che Giacomo fu fatto uccidere di spada da Erode Agrippa a Gerusalemme intorno al 44, ma la tradizione orale, riportata da San Isidoro da Siviglia, vuole che sia morto a Compostela in Galizia (Spagna) dove si era recato per predicare il Vangelo. Sulla sua tomba fu eretto, quale protettore della Spagna, il celebre santuario divenuto meta di numerosi pellegrinaggi con scalo a Gerusalemme >>. (Per ulteriori informazioni turistiche rivolgersi al proprio parroco).

Una speranza svanita.

(L'ossario di S.Giacomo).

Tre anni addietro, tutto il mondo cristiano fece salti di Gioia perché era arrivata finalmente la prova che dimostrava l'esistenza storica di Cristo: a Gerusalemme era stata rinvenuta un'urna funeraria risalente all'anno 62 sulla quale c'era scritto: << Qui giace Giacomo, fratello di Gesù>>. Ormai non ci potevano essere più dubbi, la scritta era così chiara e specifica nella data e nei nomi da lasciare perplessa una gran parte degli stessi esegeti. Numerose furono le mail mi arrivarono da parte dei credenti e dei non credenti. Mentre i primi mi deridevano i secondi mi facevano presente il loro smarrimento. Nelle mie risposte, secche e laconiche, certo come sono che Gesù è una costruzione della fine del secondo secolo, dissi semplicemente che non poteva essere che un falso. Stavo preparando la confutazione della scoperta basandomi principalmente sul fatto che Giuseppe non poteva essere nominato nel 62 dal momento che egli è apparso sui testi sacri soltanto tra il III e il IV quando si diede a Gesù una nascita terrestre, allorché uscì lo scandalo della falsificazione, scandalo che fu pressoché taciuto dai mass media italiani per quel servilismo verso il Vaticano che li aveva portati precedentemente a divulgare la scoperta più che in ogni altra nazione al mondo. Un silenzio così totale da esserci, dopo due anni dall'accertamento del falso, persone che credono ancora all'autenticità di questa scoperta, tanto che un'associazione cattolica di Arezzo mi ha chiesto ultimamente, in un tono di derisione e di compatimento, come potessi insistere a sostenere la non esistenza storica di Gesù dopo il ritrovamento dell'ossario. Uno dei primi giornali stranieri ad informare sul falso fu “Archeology” che così scrisse il 18 giugno 2003: << Il vero dramma del cristianesimo è che, dopo 2000 anni, i cristiani ancora cercano febbrilmente le prove dell'esistenza di Gesù. E attenderanno purtroppo ancora poiché la recente scoperta che aveva dato un pallore di speranza al cuore di alcuni si è rivelata purtroppo un'impostura supplementare che s'iscriverà nella lunga lista delle menzogne e contraffazioni praticate dalla Chiesa. In ottobre 2002, André Lamare, direttore della scuola di Alti Studi, aveva annunciato come avvenimento sensazionale la scoperta di un'iscrizione su un ossario di Gerusalemme. Il contenitore d'ossa portava, apparentemente, una prova dell'esistenza di Gesù Cristo per via di una menzione, in aramaico, di “Giacomo” fratello di Cristo. L'ossario avrebbe dunque contenuto i resti del fratello di Gesù. Se questa notizia ha trasportato al settimo cielo alcuni credenti, altri, facenti parte della gerarchia cattolica, l'accettavano piuttosto male poiché l'esistenza di un fratello distruggeva l 'idiota dogma della verginità della Madonna. La soluzione è venuta il 18 giugno 2003 da un'analisi effettuata dal dipartimento della Antichità Israelita: l'urna è autentica ma le iscrizioni sono recenti, esse sono state apportate con lo scopo di dare un senso religioso all'oggetto. Si tratta quindi di una falsificazione e il proprietario dell'ossario , certo Olan Golan, è sospettato di esserne lui l'artefice.

Bisogna rimarcare che questa contraffazione ha fortemente deprezzato l'oggetto archeologico>>.

Dal settimanale “Time” del 30 giugno 2003, pag. 14: << La più antica e unica prova della vita di Gesù che poteva venire da un contenuto funerario di pietra che si riteneva custodire frammenti ossei di Giacomo, fratello di Gesù, è stato dichiarato un falso dall'Autorità Israeliana delle Antichità. Il gruppo di esperti ha trovato incongruenze nella patina e nel linguaggio dell'iscrizione sulla tomba, “Giacomo, fratello di Gesù” che la collocano in tempi moderni.

Dal giornale “Liberazione” del 23 ottobre 2003: << Il 21 giugno 2003 è stato arrestato dalla polizia israelita Odan Golan accusato di essere il responsabile della falsificazione operata sull'ossario. Degli strumenti utilizzati per eseguire questo arresto sono stati trovati presso il suo domicilio insieme ad altre falsificazioni in fase di realizzazione. Il valore dell'ossario è così passato da più di unmilione di dollari praticamente a nulla. Odan Golan, in seguito al processo, è stato condannato a sei mesi di reclusione e a un risarcimento verso lo Stato Israeliano di umilione di dollari>>. (Sembra che tra i libri di Odan Golan sia stato trovato un manuale sui metodi da seguire per operare le falsificazioni firmato da“Epifanio”).

Luigi Cascioli